L’onere della prova

Flussi del tempo s’infrangono
contro barriere d’indifferenza

Canti di sirene colme di lai
pronte a inghiottire l’ignaro

Qualcuno cede
nel rincorrere l’oblio

Qualcuno soccombe
sotto strati di cenere

Nessuno porta il fardello
fino alla croce
poiché di nessuno
è l’onere della prova.

© 2015 di Irma Panova Maino

Farfalle inchiodate

Farfalle inchiodate alle pareti
tenui tessuti epiteliali
lacerati e strappati
a brandelli e contusi

Sottili membrane
che non voleranno più
non sfioreranno più
i petali del mondo

Colori spenti e grigi
sfumati nell’oblio

Maschere appese
su pareti spoglie
vuote
in cui l’eco risuona ancora
di risate mai sentite
pianti mai consolati

E ancora
struggenti ricordi
di un tempo che non è stato
che non ho mai avuto

© 2015 di Irma Panova Maino

Aforismi

Fonte: Il Pozzo dei Deliri 1° edizione. Tema: Il senso della vita

Il senso della vita – Aforisma 1

(fuori concorso)
Non vi è pace per chi cerca la vendetta,
ma vi è forza in chi persegue la giustizia

Il senso della vita – Aforisma 2

(fuori concorso)
Non credo nel bisogno di avere,
credo nell’indiscutibile necessità di essere

Fonte: da agenda “Giorni da Scrivere”

SONNIFERI

Si definisce “sonno del giusto”
quel sonno che le persone fanno con la coscienza a posto,
adesso capisco perché hanno inventato i sonniferi.

© 2015 di Irma Panova Maino

L’immagine

L'immagine

Se non avessi trovato quella superficie in cui specchiarmi, forse avrei seriamente dubitato di esistere.
Mi aggiro per casa sentendomi quasi un fantasma, avendo quella folle sensazione di dislocamento in cui il corpo rimane in un posto e lo spirito se ne va in un altro.

Avete presente quei film in cui il protagonista si vede disteso sopra una barella, mentre la gente si affolla intorno a quel corpo inerte, pensando che sia ormai spacciato? Quel fluttuare dall’alto, riuscendo a vedere particolari del proprio essere che diversamente sarebbe impossibile riuscire a scorgere?

Bene, mi sento esattamente nello stesso modo. Respiro, soffro, piango… quindi esisto, tuttavia è come se non ci fossi, come se fossi trasparente e la mia essenza fosse talmente inconsistente da non essere afferrabile. Le persone intorno a me si muovono, parlano, gesticolano, discutono animatamente, ma io rimango in disparte, emarginata dal resto, come se in realtà non stessi occupando una sedia o uno spazio qualunque.

Allora perché? Perché combatto da una vita per quel posto che pensavo mi spettasse e invece continua a sfuggirmi? Perché continuo a sentirmi come un’estranea in posti in cui, teoricamente, dovrei appartenere?

Mi muovo, cammino, sposto oggetti e faccio tutto quanto è necessario affinché qualcuno si accorga che ci sono, che ho bisogno anch’io, che passo anch’io attraverso gli inferni per trovare un pezzetto di paradiso, ma pare tutto inutile, tutto così vano che non ha davvero più senso continuare a insistere.

E allora mi siedo nel mio angolo, osservando il mondo che mi passa intorno, senza avere nemmeno più la voglia di allungare una mano per afferrarlo, per ghermirne almeno un pezzo, per farlo mio. E il mio timore è quello di scoprire che anche se mi tornasse la voglia di provare, forse non sarei più in grado di afferrare nulla, forse passerei attraverso gli oggetti senza più riuscire a toccarli.

Allora mi ritraggo, sempre più nel profondo delle ombre, rendendomi conto di come la mia consistenza svanisca nel tempo.

Ogni giorno passo davanti allo specchio e ogni giorno vedo la mia immagine sparire, perdersi e confondersi nel gioco di ombre.

Arriverà il giorno in cui, passando davanti, nulla si specchierà più.

© 2015 di Irma Panova Maino

Ero come te

Ero come te

Io ero come te.

Come te vedevo il mondo sfilarmi accanto, nel silenzioso eremo del mio guscio racchiuso. Non mi serviva altro che quella finestra dalla quale i giorni scorrevano lenti, uguali nello scandire del tempo e diversi solo nelle stagioni.

Come te non sentivo la necessità di vivere con altri, di parlare, camminare, ridere o piangere in compagnia. Perché avevo te. Compagna silente, anima gemella che nulla ha mai preteso e nulla ha mai desiderato, se non lo sguardo con il quale tutto veniva condiviso, attraverso la superficie lucida di uno specchio antico.

Come te avevo cercato il conforto nella lettura, in quelle trame che nutrivano la mia anima e portavano gioia al mio cuore, regalandomi mondi infiniti nei quali tuffare la fantasia, lasciandola liberamente scorrere lungo i declivi del tempo.

E come te sentivo il peso del mondo esterno che premeva sul mio essere gracile, cercando in tutti i modi d’imprigionarmi nelle catene delle convezioni, del farraginoso humus umano, colmo di ipocrisie e caotici desideri frustrati. Non avevo necessità di nulla che mi tenesse avvinghiata a una realtà deludente, se non tu. Tu, che dall’altra parte sentivi, così come avvertivo io, la presenza l’una dell’altra.

Il tuo riflesso era il mio, la mano appoggiata allo specchio era la mia, il vuoto dei tuoi occhi catturava il mio…

Ed ora, mentre io vivo nella mia realtà ormai mutilata, osservo le tendine della tua finestra muoversi nel refolo d’aria della corrente, come anime danzanti nell’oblio che rivolgono l’ultimo saluto eterno a una sedia vuota.

© 2015 di Irma Panova Maino

Cioccolata

Cioccolata

Il marrone non è un colore normalmente amato e non è nemmeno nella top ten di quelli nominati e preferiti da chiunque. La maggior parte delle persone sceglie i rossi, i neri, i bianchi; i più fantasiosi i blu e i gialli… questi ultimi forse perché facilmente abbinabili al mare e al sole; mentre quelli più folli spaziano dal rosa al viola, passando attraverso il verde… ma il marrone?

Suvvia, chi avrebbe il coraggio di pensare al marrone, come alla tinta preferita? Persino il grigio, che racchiude in sé tutto il tedioso piattume immaginabile, riuscirebbe a suscitare prose romantiche ispirate alla nebbia, forse persino allo smog. Ma il marrone?

La domanda si ripete, una nenia che raccoglie i pensieri intorno alle varie sfumature, veleggiando fra il beige, il kaki… per arrivare alle tinte forti, cariche di pigmento. Un beige coloniale, un abbinamento che fa correre i pensieri verso distese aride e desolate del bush, frammezzate da baobab maestosi, i quali svettano indomiti in mezzo a una natura che non da tregua e non permette errori. Oppure quel color mattone che racchiude punteggiature di sfumature rossastre, le quali ricordano abitazioni rustiche con tanto di gerani colorati e pendenti fuori dai balconi e mucche stupidamente violacee che pascolano su prati immacolati e intonsi.

E nonostante questo, nonostante le innumerevoli possibilità, marrone verrebbe associato a qualcosa di sgradevole, qualcosa che, nella nostra mente, appartiene alla zona degli scarti, dei rifiuti, dell’immondizia umana.
Provateci, dite marrone e poi provate a negare che non stavate pensando a quello… a un bel mucchietto arrotolato e fumante… denso quanto basta per non dover ricorrere al medico, con tanto di moschini ronzanti e fastidiosi intorno. Se dite di no, state mentendo spudoratamente. L’immagine è lì… ai confini della memoria, pronta a prendere il sopravvento su qualsiasi altro pensiero.

Marrone… marrone… marrone… iniziate a sentirne anche l’odore? Magari se insisto ancora un po’…

Tuttavia, per passare dalle stalle (e lì di marrone ce n’è in abbondanza), alle stelle, ecco che vi sono altri soggetti, altre sfumature che portano in altre direzioni. Ad esempio verso la cioccolata. Calda… fumante… densa… ALT!
La stessa descrizione diventa quasi inquietante, non trovate? Due soggetti così diametralmente opposti, ma che hanno consistenze descrittive similari. Non può essere solo un caso.

Dunque? Che insegnamento trarne alla fine? Che anche se è cioccolata quella che stiamo introiettando, assaporandola con gusto sul palato, sempre in cacca è destinata a finire?

La metafora della vita credo che si possa leggere nel sottile messaggio che si deduce da un’attenta valutazione: dal momento che tutto finisce in merda, tanto vale goderselo fin dall’inizio.

© 2015 di Irma Panova Maino

Una volta sognavo

Una volta sognavo

C’è stato un tempo in cui ho sognato strascichi bianchi e gardenie in tinta. Un tempo in cui le favole avevano ancora la consistenza delle speranze. Un tempo in cui i principi erano ancora azzurri e quei loro maledetti ronzini brillavano candidi come la neve alla luce del sole.

C’è stato un tempo in cui ho sognato di poter gettare il passato alle spalle, rinchiuderlo in un cassetto, o seppellirlo sul fondo di un armadio.

Un tempo in cui, guardando avanti, gli ostacoli erano visibili e ben delineati e non vi erano strani e inquietanti ninja, acquattati dietro a fitte fronde di alberi sui bordi, a nascondere i fossi.

C’è stato un tempo in cui le lancette dell’orologio servivano solo per indicare l’ora e non il futuro traditore che fugge insieme alle speranze, rese puttane da circostanze poco fortuite.

C’è stato un tempo in cui avrei detto di me altre cose, in cui mi sarei descritta con altri toni, con altre pennellate e colori più tenui, quasi pastello, molto più chiari, dipingendo un quadro quasi idilliaco e perfetto, immerso nella bucolica farsa di uno spot del Mulino Bianco.

Quel tempo è finito e “c’era una volta” la principessa buona, racchiusa nella sua torre con a guardia il drago malvagio e salvata dal principe azzurro, è diventata la menzogna del secolo.

Lei si è rivelata essere la prostituta che chiunque potrebbe avere con pochi denari; il drago, in realtà, è in via di estinzione, viene tutelato dal WWF e gli ultimi esemplari languono dietro alle sbarre di qualche zoo; e il principe è stato condannato in contumacia ed è latitante, per essere scappato con la cassa del Mezzogiorno e l’ultima volta che se n’è avuta notizia, lo hanno visto su una spiaggia domenicana, mentre beveva batida de coco con rum invecchiato, in compagnia di mulatte da quattro soldi, pronte a soddisfare ogni sua voglia.

Riaprire gli occhi sulla realtà, uscendo a fatica dal sogno, in verità diventa la salvezza dell’anima, soprattutto dopo che il sogno si è trasformato in un incubo e promette di divenire anche peggio.

E se chiudo gli occhi, pensando al mio sogno… ciò che mi passa per la mente è fortemente censurabile e soprattutto considerato blasfemo.
Non sogno più.

Vivo la mia realtà guardando avanti, tralasciando qualsiasi tentazione onirica. La sostanza è in ciò che posso toccare, vedere e sentire, tutto il resto è solo illusione… e per quanto si possano prendere tutte le precauzioni del caso, l’illusione può anche uccidere. E lo fa partendo proprio dai sogni, mandandoli a sbattere contro il muro a velocità supersonica, polverizzandoli con un urto tale da rendere i crash test del tutto inutili.
Indosso la mia corazza, lucidata per l’occasione e mi preparo, il tempo dei sogni è finito.

Ora si va in battaglia.

© 2015 di Irma Panova Maino

Soffrire vuol dire vivere

Soffrire vuol dire vivere

La sofferenza e la morte sono spesso viste come le sorellastre che ci accompagnano nel corso della nostra esistenza. Le ombre malevoli e costanti che rendono le nostre giornate disastrose e “pesanti” da vivere.

Tuttavia, riuscire a scorgere il lato positivo di entrambe, offre un nuovo spunto per godere di ciò che si ha. Solo le persone “vive” possono soffrire, gioire e, di conseguenza, morire. Coloro che hanno già rinunciato a tutto, che hanno fatto della depressione e dell’indifferenza dei baluardi dietro ai quali trincerarsi, non riescono a cogliere nulla, o quasi, di quanto li circonda.

Il dolore è solo uno stato momentaneo con cui l’animo impara presto a fare i conti. Dalle piccole delusioni che si affrontano in età puberale, fino a quelle più strazianti che si subiscono in età adulta, tutto concorre a renderci vivi. Il tempo lenisce, guarisce e conforta e nulla è destinato a durare per sempre. Eppure, nonostante questo, gli attimi spesi nel dolore sembrano più lunghi, più dilatati e diventano ancora più intensi quando ci si sente soli. Ma soli lo si è perché i battenti del nostro esistere sono stati chiusi per poter sopportare quanto si sta patendo. In realtà, al di là di essi, esiste un mondo pronto ad accoglierci e a farci soffrire ancora.

Ma per cosa si soffre? Per amori perduti, persone andate, cose disperse e affetti lasciati cadere nell’oblio? La sofferenza è relativa e non sempre nasce da sentimenti effettivi. A volte matura e scaturisce da motivazioni molto più materiali e viene distorta da fattori egoistici. Quanto spesso capita di non accettare un allontanamento solo perché ci viene tolto il nostro giocattolo preferito, o l’oggetto che forniva sicurezza e benessere?

A volte, invece, la sofferenza fermenta in ambienti che non lasciano spazio alle alternative, attraverso atteggiamenti che portano a straziare gli animi, segnando profonde cicatrici che restano come solchi in un terreno divenuto arido. Eppure, in quegli stessi solchi, con un po’ di pazienza e di impegno, è possibile far germogliare nuova vita, nuove gemme che possono portare a credere nella miracolosa essenza della vita.

Solo i vivi soffrono, i morti non lo fanno più.

I morti, anche quelli che ci camminano a fianco tutti i giorni, non provano più niente, non sono in grado di apprezzare il sorgere del sole e il tramontare dello stesso; non colgono l’odore di un’umanità presente, giocosa, noiosa, rumorosa e caotica e non comprendono i desideri di chi sta loro accanto. Non vivono, vegetano spendendo le ore della loro esistenza in quella abulica sensazione di sconfitta con la quale appestano anche chi sta loro vicino. Ammorbano l’aria con la negatività delle loro sentenze lapidarie, condannando chiunque spenda energie per dare pennellate di colore in una vita che, altrimenti, sarebbe grigia e inutile.

Ma io sono viva, invece. Lo sono fin nel profondo del mio midollo osseo, fin dentro ogni molecola del mio aver vissuto e sofferto, pianto e gioito. Sono viva e sorrido a ogni mio risveglio, anche se la giornata pare grigia e l’aprire gli occhi significa affrontare tutti i problemi che una giornata qualunque è in grado di offrire.

Sono viva… e questo mi basta.

© 2015 di Irma Panova Maino

Sfumature

Sfumature

Conosco l’animo umano, lo percepisco sull’epidermide come una sottile corrente che mi sfiora la pelle, trasmettendomi gli stati emotivi che provano le persone.

Sono empatica e vivo questa mia dote a volte come una maledizione, assorbendo dall’ambiente che mi circonda le energie emanate, siano esse positive o negative, cedendo a mia volta forze così faticosamente racimolate. Non riesco nemmeno a nascondermi dalle sollecitazioni, non riesco a porre quegli scudi che mi porrebbero al riparo dalla follia e dalla cattiveria umana, riesco solo a lasciare che tutto mi attraversi, restando talvolta inerme di fronte all’intensità delle altrui emozioni.

E vi sono stati dei momenti nella mia vita, probabilmente ve ne saranno ancora, in cui le percezioni hanno sommerso il mio stesso essere, facendomi vivere l’esistenza altrui quasi come se fosse stata la mia. Istanti terribili in cui due mondi sono entrati in collisione lasciandomi sfinita e spossata, totalmente depredata di quelle energie che avrebbero dovuto essere solo mie.

Tuttavia un altro dono mi è spesso venuto in aiuto, una particolare predisposizione con la quale sono nata e che ho compreso solo in età adulta, ma che ora utilizzo di sovente, specialmente in quei casi in cui nulla sembra essere reale e tutto viene celato sotto strati e strati di artifici ben confezionati.

Sono una superficie riflettente sopra la quale si specchiano i volti di coloro che guardano, vedendo finalmente se stessi per ciò che realmente sono. Sono la verità degli animi esposti, senza orpelli né finzioni. Sono ciò che la loro mente razionale nega di essere, tentando di nascondere le proprie bassezze e meschinità nei più remoti recessi. Sono l’essenza del loro essere veri al di là di qualsiasi apparenza, frantumando qualsiasi maschera che possa essere stata indossata per anni.

Ed è proprio l’attimo in cui il volto si denuda, in cui l’anima si espone che il cuore trema. L’attimo in cui, scivolando via la maschera, l’essere umano teme di non trovare nulla se non il vuoto abissale pronto ad accoglierlo, divenendo l’ennesima sfumatura di una vita racchiusa in un refolo di vento.

© 2015 di Irma Panova Maino

Scintillii di luce e ombre sulle lame

Scintillii di luce e ombre sulle lame

Molte sono le lame che baluginano nel buio. Alcune sono acuminate e fredde come rasoi, squarciano le tenebre e raggiungono l’obbiettivo senza alcun preavviso, producendo ferite che diventano subito infette.

Altre ancora sono bisturi che spazzavano via il superfluo, lasciando la pelle liscia e morbida, portando via tutto ciò che è inutile e futile, tutto ciò di cui potremmo fare volentieri a meno.

Tuttavia, quelle che lasciano i solchi più profondi, sono quelle che vengono impugnate da chi ci è più vicino e poco importa se vengono usate a fin di bene e se chi le usa pensa di offrire un servizio. In realtà fanno male, tanto e più dei coltelli estranei e dei pugnali professionali, esibiti da chi, giornalmente, ne fa uso. Quella luce, che fa scintillare le lame, diventa ancora più inquietante se prodotta da una mano amica, ancora più sinistra se fatta lampeggiare da una persona che normalmente ci sta alle spalle, perché degna della fiducia di occupare tale posto.

Ebbene, a chi non è mai successo di impugnare tale lama? Di infliggere involontariamente quel dolore che, nella carne spezzata, diventa subito putrescente e maleodorante? Chi non si è mai trovato dalla parte dell’aguzzino, suo malgrado, diventando il carnefice delle speranze e dei sogni altrui? E nonostante questo, quella stessa lama che s’insinua nella carne amata, non fa dolere anche noi? Non rende sanguinanti anche i nostri cuori? Siamo vittime del nostro altruismo, dell’ingenuità o della stupidità di un momento.

Ma essere altrettanto vittime, ci rende meno colpevoli?

© 2015 di Irma Panova Maino

Questione di classe

Questione di classe

Quando la classe fa acqua da tutte le parti.

Mio padre, pace all’anima sua, aveva un solo grosso difetto. E per quanto io l’abbia amato moltissimo e lo abbia rimpianto molto, soprattutto dopo, su un determinato argomento non sono mai riuscita a essere concorde con lui. Con il passare del tempo ho compreso bene le sue motivazioni e le sue intenzioni.

Tuttavia allora (come adesso), non solo non le condivisi, ma arrivai a far diventare tale argomento lo spunto primario per iniziare una ribellione adolescenziale in piena regola. Con tanto di fughe da casa, dall’istituto religioso in cui ero stata rinchiusa e tanti altri atteggiamenti, spesso persino lesivi. In ogni caso, ciò che mio padre mi ripeteva sempre, era: “Ricordati che appartieni a una buona famiglia e che non è consono, per te, frequentare persone di un ceto sociale diverso dal tuo”…

Orrore! Ebbene, il sciur Maino, proveniente dalla classica borghesia milanese dei primi anni ’70, altrettanto classico commendatore e rampante proprietario di una fabbrica in Brianza, probabilmente non voleva apporre delle barriere sociali, ma nella sua mentalità, da uomo benestante del dopo guerra, l’appartenere a una “buona famiglia” aveva connotazioni ben precise. Ovvero andare in collegio dalle suore, suonare il pianoforte, fare corsi di danza classica e, per le più emancipate, seguire le sessioni invernali di una scuola di sci a Cortina.

Nella sua logica di padre, l’appartenere a una “buona famiglia” era sinonimo di serietà, di rigore morale e di rispetto verso gli altri. E questo perché era lui a interpretarlo in questo modo, essendo nato, cresciuto e vissuto con questi principi… peccato che la realtà fosse ben diversa. I miei coetanei, o conoscenti poco più grandi, non erano altro che figli viziatissimi di genitori che, a loro volta, scoprivano un mondo nuovo in cui il benessere e la libertà di costumi permetteva qualsiasi idiozia.

E i figli, cresciuti con tate e governanti varie, non erano altro che lo specchio dell’improvviso egoismo dei propri genitori. Persone che, una volta cresciute, non hanno fatto altro che rimandare alla propria progenie il culto dell’apparire, dell’effimero, dell’inutile. Ed io, pargola ribelle, al posto di frequentare rampolli blasonati o futuri dirigenti in erba ( … tagliata persino con la salvia) ed eredi di imperi industriali, preferivo la compagnia più genuina di coloro che, a detta di papà, non avrei dovuto frequentare.

Detto questo, e molto altro ancora ci sarebbe da dire di quegli anni ribelli, ciò che mi sono sempre chiesta era: possibile che un uomo buono, con le sue capacità e doti naturali, non si rendesse conto dello sfacelo morale che lo circondava? Possibile mai che, quegli anni, abbiano ottenebrato il cervello alla maggior parte della popolazione?

Purtroppo sì. E gli effetti deleteri si vivono ancora adesso, a distanza di quarant’anni.

© 2015 di Irma Panova Maino