Mio padre

Mio padre

Ricordo mio padre. Un uomo che ho compreso solo nel momento in cui l’ho perduto. Un uomo che mi ha dato il suo nome, la sua casa, il suo affetto e il suo rammarico per non essere riuscito ad amarmi fino in fondo per ciò che ero. Ero troppo simile a mia madre, diceva.

E lui era arrivato a odiarla. In verità lei aveva fatto di tutto per farsi odiare, per distruggere quel poco di rapporto umano che avevano costruito insieme, rendendolo un uomo acido, sofferente e perennemente insoddisfatto del proprio vissuto.

Ma l’ho capito dopo, ho compreso la distruzione alla quale è andato incontro solo dopo che la terra aveva ricoperto le sue spoglie. Tuttavia, il momento in cui ho rivissuto tutto il nostro dramma padre/figlia è stato il giorno in cui sono dovuta andare a riesumarlo.

Barbara abitudine di una società impietosa e crudele. Come si può pretendere che qualcuno dei parenti presenzi a un rito così orribile? Come si può pretendere che sia presente per constatare l’avvenuta “consumazione” del cadavere?

Per Dio! Era un uomo prima di essere solo ossa e polvere!

Ricordo il momento in cui hanno aperto la fossa, ricordo la mia solitudine per essere stata l’unica che ha avuto il coraggio (o l’incoscienza) di esserci. E le immagini di quegli attimi sono ancora impresse nelle anse del mio cervello, come tarli che ogni tanto vengono a tormentarmi, sottolineando la nostra stramaledetta inutilità su questo suolo terrestre. Siamo niente. Siamo solo ossa e polvere che un giorno finiranno per consumarsi del tutto, tornando a concimare quel terreno che abbiamo calpestato senza nemmeno vederlo.

Siamo falene destinate a bruciare e stelle ormai spente, che ancora vagano nel ricordo della propria impronta orbitale. Siamo solo una frazione di nulla fugace, nell’immenso spazio del tempo.

E io lì, ritta e ghiacciata, davanti a quella fossa aperta, ricordai solo l’uomo che fu. L’uomo che portava i suoi centoventi chili su un metro e ottanta di individuo senziente, colmo di un amore che non è mai stato compreso, né da me né tanto meno da mia madre. Un uomo che è morto nella solitudine di un letto di ospedale in piena notte, venendo a darmi il suo saluto quando già il suo ultimo respiro veleggiava nell’etere.

Un’ombra appena percettibile, il tocco di dita invisibili che mi hanno appena sfiorata, trasmettendomi ciò che la carne e il sangue non erano state in grado di comunicare.

E in quella mattina gelida, mentre riponevano i suoi resti in quella che sembrava una scatola per scarpe, solo un poco più grande, mi sono chiesta più volte come potevano entrare le sue spoglie in un contenitore così piccolo.

È stato allora che gli ho rivolto il mio saluto di figlia. L’ultimo.

L’ultimo viaggio
Lo faremo insieme
Tenendoci per mano
E sorridendo alla vita
L’ultimo viaggio
Lo faremo insieme
Nel silenzio
Del mio cuore

© 2015 di Irma Panova Maino

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