Pulizie di primavera

Pulizie di primavera

Quante cose si accumulano negli sgabuzzini dei nostri cuori. Quante cianfrusaglie, scatoloni,   oggetti inutili e rimasugli di una vita passata, forse nemmeno goduta.

Cose accantonate, per poi essere dimenticate negli angoli bui, ricoperte di polvere e ragnatele, lasciate languire con la speranza che, prima o poi, torneranno utili. Forse mai.

Tuttavia, nel momento stesso in cui vengono riposte nello sgabuzzino, pensando che forse potrebbero servire ancora, solitamente non accade mai che tornino di nuovo in uso, mai che da quello sgabuzzino rivedano la luce.
Nei ripostigli della nostra coscienza, oggetti strani e deformi trovano il loro posto, accatastati gli uni sugli altri, come in un puzzle in cui manca in realtà uno schema, una foto o un disegno che aiuti a ricomporre l’immagine originale.

Pensieri che, con la loro corposità, rendono pesante l’esistenza, a volte persino sgradevole, ma che non si possono semplicemente gettare via perché fanno comunque parte di un nostro bagaglio, della nostra esperienza. Per quanto siano state tante le volte in cui la tentazione di liberarsene, abbia quasi prevalso sul bisogno compulsivo di rimanere aggrappati al passato, temendo la direzione presa dai nostri pensieri, la necessità di mantenere sotto i piedi un terreno solido e sicuro, ci ha costretti a mantenere intatto quel ripostiglio, a non disfarci nemmeno di un chiodo. Punte aguzze, di ferro arrugginito, che ci mantengono inchiodati alla nostra croce, alla realtà fatta di spuntoni che rendono il cammino periglioso.

Nei nostri sgabuzzini bui le cose si accumulano, arrivano fino al soffitto, rischiando di tracimare da quella porta che le tiene strettamente chiuse e al sicuro. Al sicuro per noi e per chiunque ci stia intorno.

Sono ricordi che sfumano nella nostra vita, tornando ad avvolgersi intorno a essa, come se non si volessero separare dalla materia, dal cuore e dall’anima.

Tuttavia arriva il giorno in cui ogni remora decade, ogni affetto verso quel cumulo di cianfrusaglie si perde nel concreto della realtà e si sente l’esigenza di liberarsi da un peso, di fare spazio, di cercare nuovi volumi da poter riempire con quello che si sta vivendo. E quel giorno il ripostiglio viene aperto e svuotato brutalmente.

Ecco che, man mano che i ricordi passano fra le dita, finendo senza alcuna difficoltà nel sacco dell’immondizia, ci chiediamo perché abbiamo conservato tutte quelle cose inutili, perché le abbiamo tenute per tutto quel tempo, occupando uno spazio che avrebbe potuto essere utilizzato per altro. In quel giorno, in cui ci coglie la smania di liberarci delle cose vecchie, ecco che il sollievo torna a rinfrancarci, aprendoci quella porta verso un futuro che, per quanto ignoto, non sembra più così terrificante.

Osserviamo, quasi con un ultimo commiato affettuoso, tutto ciò che ci ha accompagnato nelle altre nostre fasi della vita, provando un lieve rimorso per quel sentimento corroborante che fa sospirare dal sollievo, rendendoci persino ingrati.

Cos’è questa? Una vecchia foto di come eravamo? E questo? Il sasso raccolto sul greto del fiume che ci ha travolti? Oh… guarda dov’era finita quella vecchia maglietta, tanto stretta che… ma basta! Via! Buttare via tutto!

Non servono a niente, se non a riesumare vecchi episodi, remote esperienze, antichi amori, tutte cose che la memoria non ha più voglia di trattenere, non ha più voglia di elaborare, non ha più voglia di tenere chiuse in quello sgabuzzino.

L’anima ha bisogno di sentirsi libera, più leggera, in grado di spiccare quel balzo che la porterà in alto, nello spazio infinito, fuori dai confini e dalle catene. Ha bisogno di luce e di ossigeno, di poter sognare e sperare ancora.

Il tempo non è ancora finito, non è giunto il momento per riporre le armi e smettere di anelare a un futuro migliore, più pieno, più soddisfacente; al contrario, è arrivato l’attimo in cui dispiegare le ali, in cui scrollarsi di dosso le ceneri e svuotare quel maledetto ripostiglio, per dare modo ai nuovi ricordi di avere un proprio posto, in cui insidiarsi nella mente.

© 2015 di Irma Panova Maino

Nata libera

Nata libera

In bilico fra due mondi, mi sono spesso chiesta se fosse solo una mia illusione, o la vitale necessità di ogni essere umano, quella di credere in un’esistenza migliore.

Ho vissuto il mio ruolo al meglio che potevo, cercando di carpire quei segreti, tramandati da nonne e madri, di generazione in generazione, che a me sono sempre stati negati.

Non sono nata per essere moglie e madre, non sono nata con lo straccio della polvere in una mano e il mestolo in un’altra. Sono nata libera e come essere privo di catene e costrizioni ho accettato una maschera per amore. Per dare quello che il sociale prevedeva che dovessi offrire come contributo.

Eppure, nonostante questo, ho sempre saputo che non potevo reggere nelle vesti che mi erano state affibbiate, fornendomi di un’etichetta che mi avrebbe data come un “usato quasi nuovo”. Quante volte ho osservato il mondo al di fuori dei miei spazi, quante ho sospirato, sognando di nuovo la fragranza verdeggiante di un prato e l’aroma speziato della resina nei boschi…

E allora ho sperato, oltrepassando la soglia, cercando fra le parole il conforto per un animo inquieto. Fra le lettere ho trovato le mie risposte, il mio modo di essere, il mio bisogno soddisfatto, colmo di quella naturalezza che era in grado di travalicare qualsiasi apparenza.

Ora sono qui, su questa soglia, con lo sguardo rivolto al mio passato, mentre cerco di pareggiare i conti fra quello che ero e ciò che sono.

E mentre varco definitivamente il confine, sento il vento sussurrarmi di nuovo…

© 2015 di Irma Panova Maino

Mio padre

Mio padre

Ricordo mio padre. Un uomo che ho compreso solo nel momento in cui l’ho perduto. Un uomo che mi ha dato il suo nome, la sua casa, il suo affetto e il suo rammarico per non essere riuscito ad amarmi fino in fondo per ciò che ero. Ero troppo simile a mia madre, diceva.

E lui era arrivato a odiarla. In verità lei aveva fatto di tutto per farsi odiare, per distruggere quel poco di rapporto umano che avevano costruito insieme, rendendolo un uomo acido, sofferente e perennemente insoddisfatto del proprio vissuto.

Ma l’ho capito dopo, ho compreso la distruzione alla quale è andato incontro solo dopo che la terra aveva ricoperto le sue spoglie. Tuttavia, il momento in cui ho rivissuto tutto il nostro dramma padre/figlia è stato il giorno in cui sono dovuta andare a riesumarlo.

Barbara abitudine di una società impietosa e crudele. Come si può pretendere che qualcuno dei parenti presenzi a un rito così orribile? Come si può pretendere che sia presente per constatare l’avvenuta “consumazione” del cadavere?

Per Dio! Era un uomo prima di essere solo ossa e polvere!

Ricordo il momento in cui hanno aperto la fossa, ricordo la mia solitudine per essere stata l’unica che ha avuto il coraggio (o l’incoscienza) di esserci. E le immagini di quegli attimi sono ancora impresse nelle anse del mio cervello, come tarli che ogni tanto vengono a tormentarmi, sottolineando la nostra stramaledetta inutilità su questo suolo terrestre. Siamo niente. Siamo solo ossa e polvere che un giorno finiranno per consumarsi del tutto, tornando a concimare quel terreno che abbiamo calpestato senza nemmeno vederlo.

Siamo falene destinate a bruciare e stelle ormai spente, che ancora vagano nel ricordo della propria impronta orbitale. Siamo solo una frazione di nulla fugace, nell’immenso spazio del tempo.

E io lì, ritta e ghiacciata, davanti a quella fossa aperta, ricordai solo l’uomo che fu. L’uomo che portava i suoi centoventi chili su un metro e ottanta di individuo senziente, colmo di un amore che non è mai stato compreso, né da me né tanto meno da mia madre. Un uomo che è morto nella solitudine di un letto di ospedale in piena notte, venendo a darmi il suo saluto quando già il suo ultimo respiro veleggiava nell’etere.

Un’ombra appena percettibile, il tocco di dita invisibili che mi hanno appena sfiorata, trasmettendomi ciò che la carne e il sangue non erano state in grado di comunicare.

E in quella mattina gelida, mentre riponevano i suoi resti in quella che sembrava una scatola per scarpe, solo un poco più grande, mi sono chiesta più volte come potevano entrare le sue spoglie in un contenitore così piccolo.

È stato allora che gli ho rivolto il mio saluto di figlia. L’ultimo.

L’ultimo viaggio
Lo faremo insieme
Tenendoci per mano
E sorridendo alla vita
L’ultimo viaggio
Lo faremo insieme
Nel silenzio
Del mio cuore

© 2015 di Irma Panova Maino

Le ceneri

Le ceneri

Scavo sotto le ceneri di un passato che giace devastato ai miei piedi. Scosto, quasi con delicatezza, quei frammenti anneriti e ingrigiti che hanno perso ogni consistenza, cercando di trovare ancora il rossore di una passione che si è spenta, è svanita, si è annullata nell’indifferenza quotidiana.

Tuttavia nulla pare più brillare nel silenzio monocromatico della mia anima, nulla pare aver conservato quel minimo ardore che avrebbe lasciato viva la speranza. Mi aggiro fra questi detriti, considerando che non ha molta importanza quale sia la forza devastante che porta alla rovina, se un uragano sia più distruttivo di un incendio o un terremoto, quando il destino si abbatte con forza sulle nostre vita, non rimane più niente, se non tirare le somme e pagare i conti.

Gli “avrei potuto”, “avrei dovuto”, non hanno davvero più senso, non servono a nulla e rimestare ancora in queste ceneri, ha lo stesso sapore acido del fallimento che invade la bocca, bruciando il gusto per la vita, per quel futuro che è morto e sepolto sotto la stessa tonnellata di macerie che mi circondano.

È passato del tempo dall’ultima volta in cui ho rovistato fra i carboni, trovando ancora qualche tizzone acceso, la stessa speranza che portava a credere che, se sussisteva ancora quell’alito di vita, avrei potuto ancora accendere una fiamma per illuminare il cammino, ma quel tempo è finito. Non vi è più nulla che possa produrre quell’energia in grado di ravvivare il fuoco. Non vi è più nulla se non il silenzio.

Ciò che raccolgo ormai si sbriciola fra le dita, diventando la polvere che viene trascinata via dal vento. Lo stesso vento che spazzerà via tutto, disperdendo i frammenti di un’esistenza passata nell’immenso spazio di un domani celato dal fumo. Cancellerà, al suo passaggio, ogni traccia di ciò che è stato, di quello che ho provato, di ciò che ho vissuto, lasciando nuovamente il terreno sgombro dalla distruzione che è avvenuta. L’ultimo sguardo che dedico a tutto questo, serve solo a ricordarmi che non vi è nulla di certo, nulla di così solido e incrollabile che possa resistere alla furia degli elementi, quando questi si scatenano, tutto ha la sua valenza relativa, il suo effimero scopo in questa vita mortale e passeggera.

Basta un nulla, una favilla qualsiasi per alimentare un fuoco che, perdendo il controllo, diventa l’incendio distruttore di noi stessi. Ed è stato davvero un attimo. L’attimo in cui il sussurro è diventato tempesta, l’attimo in cui quel “basta”, mormorato quasi in modo incerto all’inizio, ha preso forza, alimentandosi con lo stesso furore scaturito dalla negazione, da quei continui rifiuti dati nella totale inconsapevolezza di quanto stava accadendo.

Raccolgo me stessa, le briciole di me, ricomponendo, affliggendomi, le ferite aperte, lenendole con quel poco di orgoglio che ancora mi avanza. Non mi guarderò più indietro, non tornerò fra quelle rovine, cercando ancora fra quelle ceneri una scintilla occhieggiante. Andrò avanti, un passo dopo l’altro, lasciando volute di fumo sulla scia delle mie orme.

L’alba mi accoglie disperdendo le spirali grigie, gli sbuffi della notte, aprendosi verso un giorno le cui tinte ricordano ancora l’incendio devastante, i colori sono forti, intensi, dolorosi, ma come sempre accade, con il tempo arriveranno le sfumature, i pastelli, le pennellate leggere.

La cenere scende, mi abbandona, svolazza verso il terreno impregnandolo, mischiandosi al terriccio e rendendolo fertile, creando quella base affinché un domani qualcosa vi possa crescere ancora.

© 2015 di Irma Panova Maino

La tenebra

La tenebra

Quanto può un animo buono scendere nell’oscurità, senza rimanerne avvinto? Quanto può immergersi nella melma, senza subire il peso del fango? E quanto a lungo resiste, restando fuori dal proprio elemento naturale?

Vi sono momenti nella vita in cui l’Essere si ribella, in cui l’oppressione diviene tale, da costringere un’anima pura a cedere alle tenebre, lasciando che prendano il sopravvento su tutto ciò che ci circonda. Attimi in cui l’universo si capovolge e ciò che pareva lecito diviene aberrante e ciò che rasentava l’assurdità, appare improvvisamente logico. Situazioni che vengono stravolte e centrifugate in enormi frullatori, i quali spremono fuori anche gli ultimi residui di un’umanità perduta.

Ed è allora che si odono le grida dello scontro e il clangore delle armi; il sopravvivere non è più un effimero ideale, ma una concreta realtà, peraltro traballante e incerta.

Come superare la notte, se non vi è altra alternativa che viverla fino in fondo? Come arrivare fino all’alba, se le sinapsi non rimandano altro che impulsi rabbiosi?

Non vi è ripensamento né tempo per il rimorso. La perfidia e l’intolleranza ci spingono avanti e avanti ancora, incuranti di quanto stiamo calpestando e di ciò che giace ai nostri piedi. I caduti e i feriti non si contano, non hanno importanza alcuna e non servono nemmeno per riempire i vuoti, ciò che conta è il momento, quell’istante che porta a volgere la palma del vincitore all’uno o all’altro, l’istante in cui si decreta chi salirà sul più alto gradino del podio.

Dunque cosa resta? Se non il biancheggiare delle ossa che cospargono i campi di battaglia, riportando solo l’odore della morte e i lamenti dei feriti? Il putridume delle viscere sparse e gli arti spezzati, insieme ai sogni spazzati via, nel letargico disinteresse comune? Cosa, se non la certezza che in guerra nessuno esce vincitore e nessuno può realmente cantare vittoria?
La libertà ha un prezzo e il fio si paga, anche con il sangue. Non esiste compromesso e non vi sono patteggiamenti che possano durare nel tempo. Esiste solo la tenebra più cupa. L’oscurità che assorbe ogni minima luce, beffandosi di qualsiasi tentativo di resa.

Or dunque cantiamo l’inno alla gloria dell’inferno mentre, con le armi in pugno, portiamo noi stessi alla distruzione. Che senta il nemico il coro e l’assolo della voce del drago, mentre questi sputa fiamme infernali e l’odore del zolfo appesta l’aria, togliendo il respiro. Che le orde si riversino nella piana, lasciando dietro di sé solo tizzoni ardenti e la desolazione di un tempo annientato.

Nel passato resta racchiusa la chiave del futuro. E le cicatrici resteranno, come mute testimoni di una tenebra annunciata.

© 2015 di Irma Panova Maino

La forza delle donne deboli

La forza delle donne deboli

Debolezza non è automaticamente sinonimo di inettitudine, di goffaggine o incapacità di affrontare la vita, al contrario, l’essere deboli è spesso sintomo di forza e di carattere, per quanto questo possa sembrare contraddittorio. In cosa consiste questa debolezza? Nell’essere sensibili e vulnerabili? Nel sentire tutto il peso del mondo e non riuscire a sfoderare degli artigli degni di Wolverine?

Ebbene, care le mie signore, il sesso forte siamo noi e non, come normalmente viene definito, quello maschile. Noi non dobbiamo dimostrare niente, non dobbiamo essere i “galli del pollaio”, non dobbiamo essere virili e soprattutto non dobbiamo dare alcuna prova della nostra “mascolinità”.

Siamo donne. A noi è permesso piangere davanti a una scena commovente della commedia romantica di turno, noi possiamo lasciarci andare in esternazioni isteriche, anche al momento più inopportuno, noi possiamo passare ore a cercare di scegliere una maglietta rossa piuttosto che bianca. E il tutto, quando proprio dobbiamo ricorrere a scusanti logiche, condendolo con la scusa del ciclo…

Possiamo dire “no” pensando invece a un sì e possiamo dire forse, quando in realtà abbiamo ben chiaro quello che vogliamo. Esistono sicuramente situazioni in cui la vera debolezza sta solo nel fisico, sicuramente non nella mente, un uomo è più forte di noi per una questione evolutiva, ma l’avere un cervello e saperlo fare funzionare, può sopperire alla scarsità muscolare, sempre che non decidiate di partecipare a Miss Universo, in versione femminile.

Tuttavia, devo mettervi sull’avviso per quel che riguarda tutta quella muscolatura “gonfiata”, per ottenere un simile ammasso è spesso necessario “pomparlo” chimicamente, con il risultato che, dopo una certa età, il fisico crolla, sbordando in ogni dove.

Dunque lasciatevi andare alle lacrime, ai piagnistei e all’autocommiserazione, non vi è alcuna vergogna in codesto sfogo, e dopo aver pianto le cascate del Niagara, pensate a tutto quello che fate giornalmente, a tutte le incombenze che pendono sulle vostre spalle e a tutte le responsabilità che, normalmente, siete costrette ad accollarvi, perché femmine, e dopo che ne avrete fatto un lungo elenco, rendetevi davvero conto di chi è l’elemento forte in una coppia.

Ultimo esempio, che vale per tutto, noi mettiamo al mondo i figli e per quanto si possa essere fortunate e aver partorito in quattro e quattr’otto, noi ci prendiamo l’onere di portarli per nove mesi, con tutti i disagi che ne conseguono e di farli uscire da quel misero pertugio che, incredibilmente, è in grado di produrre il miracolo.

Allora siate donne, siate femmine deboli e fragili fino in fondo e fate di questo la vostra forza!

© 2015 di Irma Panova Maino

La fine

La fine

Solchi d’ambra segnano il tempo speso in inutili sequenze di errori e macchiano la pelle con il fuoco dell’inferno. Quanto poco sarebbe bastato per evitare l’aridità di un terreno che nulla chiedeva?

Gli incubi sono stati assemblati con tenacia e pazienza, divenendo reali, parte di un quotidiano che perdeva lustro e splendore a ogni sorgere di luna piena. Ed erano gemiti che sorgevano dalle tombe, aloni di spiriti domati e resi schiavi del giornaliero perdersi. Erano le urla dell’incomprensione, quelle che sostituivano i sussurri d’amore. Il lento corrompersi ha portato alla distruzione.

Ho visto le mura sgretolarsi sotto l’accidia, crollando sotto quelle miserevoli accuse mosse per coprire le colpe. Ho visto svanire al sole i sogni, ricoperti dalle ombre della mancata ragione. Sono diventata niente nel giro di poco, prostrandomi all’indifferenza e rinunciando a tutto ciò per cui così duramente ho lottato.

Ma ancora non è bastato. Dopo la distruzione è subentrato il silenzio. Quel silenzio fatto di ironia e sarcasmo, di cattiveria e vendetta.

Me ne sono andata. Ho girato le spalle al nulla tentando di ritrovare me stessa, il mio modo di essere e di vivere. E ancora sono stata condannata per questo. L’egoismo è diventato la mia bandiera, il vessillo sotto il quale hai posto il mio operato pensando di averne diritto.

Hai aperto le porte a Cerbero per venire a stanarmi, senza comprendere che elargivi fiele al cane infernale per ricompensarlo dei morsi inflitti. Sarebbe bastato poco, ma poco è ciò che è rimasto.

Sarebbe bastato davvero poco, ma ho avuto bisogno di molto per comprendere il reale.

© 2015 di Irma Panova Maino

La benedizione dell’essere soli

La benedizione dell'essere soli

In verità, a parte tutte le considerazioni che si possono fare sulla solitudine, non è sempre un fattore negativo restare da soli con sé stessi. Il più delle volte, passati i primi momenti di panico, si scopre un nuovo modo di concepire gli spazi e soprattutto il tempo. Il solo fatto di potersi mettere le dita nel naso o grattarsi una natica, senza il timore di essere beccati da qualcuno nel momento clou, dovrebbe poter far riflettere.

E che dire del fatto che il preparare una cena o un pranzo non rappresenta più un’ossessione, ma un piacevole intermezzo fra una bella padellata di fatti propri e una casseruola di affaracci miei?

Nessuno che attenta al tuo legittimo diritto al possesso del telecomando; nessuno che sbuffa per l’ennesimo documentario sull’accoppiamento dei lemuri; nessuno che pretende di vedere tutti i cataclismi naturali, che si sono abbattuti vicino a casa nell’ultimo millennio; nessuno che corre a impossessarsi della tua comoda conca, formata così diligentemente nel cuscino del divano; nessuno che pretende le “coccole” quando sei nel bel mezzo del tuo ciclo mestruale e l’unica cosa che vorresti fare, è addentare con ferocia gli imbecilli che si sono inventati, nelle varie pubblicità, che le donne “in quei giorni” debbano andarsene in giro vestite di bianco e debba venire loro la malsana idea, proprio in quelle condizioni, di buttarsi giù da un aereo.

Per non parlare poi delle tracce di dentifricio nel lavandino o dell’asse perennemente sollevata o ancora dell’asciugamano umidiccio… Tutto ciò che lascerete in un determinato stato, così lo troverete, senza dover aprire ogni volta una caccia al tesoro, seguendo le indicazioni “enigmistiche” del Bartezzaghi di turno.

Ah… finalmente soli! E come nelle più celebrate commedie americane, eccovi scorrazzare in modo indecoroso per casa, con la musica a tutto volume, mentre tentate di produrre un accordo smanettando furiosamente la Tonkita. Ebbene, se avete la fortuna di potervi godere una situazione simile, nel momento stesso in cui varcate la soglia di casa e sentite solo un piacevole silenzio, non fatevi prendere da qualche paranoia o da qualche pensiero straziante del tipo: “Oh me misera e me tapina! Come sarebbe bello avere qualcuno ad accoglierti!”

Se questo “qualcuno” consistesse in una famiglia di dodici elementi, molti dei quali al di sotto dei quindici anni, vi sentireste ancora così derelitte? Se invece del caldo abbraccio di un amante, pronto a soddisfare qualunque vostro sogno erotico, vi accogliesse la pallonata in faccia del figlio discolo, vi sentireste così sfortunate? E se invece delle confortevoli pantofoline, tanto agognate dopo aver passato tutto il giorno in un paio di scarpe scomode, vi venisse incontro il “cucciolo” quadrupede di casa, mentre ancora sta facendo a pezzi l’ultimo paio di De Fonseca, vi sentireste ancora così disgraziate?

Ovviamente questa vuole essere una provocazione, tuttavia è bene considerare il lato positivo di ogni situazione, quelli negativi sono sempre fin troppo evidenti e non sempre ciò che pare penoso, lo è realmente.

© 2015 di Irma Panova Maino

L’ultima maschera

L’ultima maschera

Le orbite vuote mi osservano, riportando alla memoria quanto è già successo. Le sottili scanalature dell’osso sono lucide, usurate da un passato pressante, pieno, fin troppo carico di emozioni.

Sfoglio i mille volti della mia anima ricordando ogni sfaccettatura, ogni singola espressione, ogni gesto, ogni circostanza. Fanno tutti parte di me, questi sottili strati delle stesse spoglie, rappresentano ciò che ero, quello che sono diventata e non rinnegherei nessuno di essi. Sono i mille volti del mio essere stata bimba, adolescente, femmina, donna, moglie e madre.

E non sempre hanno avuto la stessa consistenza, a volte sono stati fragili come fogli di carta velina, a volte solidi come mura invalicabili. Ci sono stati momenti in cui è stata la gioia a pennellare le superfici, tuttavia più spesso è stato il dolore, le rinunce, i sacrifici, i tormenti e le delusioni a dare tinte fosche ai miei resti.

Non mi sono nascosta, non ho potuto. Le sconfitte non mi hanno impedito di continuare a vivere, anche se il prezzo è ancora lì, inciso sulle pareti dell’involucro che mi ha, a stento, protetta. Sono mille gli aspetti che mi hanno permesso di arrivare fino a qui, contemplando l’ultima maschera che ancora mi porto appresso, quella che sarà l’ultima.

© 2015 di Irma Panova Maino

Io sono

Io sono

Nella penombra della luce azzurrina dello schermo, che proietta le sue immagini sul mio volto, accendo l’ennesima sigaretta, ascoltando il solitario ticchettare delle unghie sulla tastiera.

Le parole volano, scorrono fluide sulle pagine virtuali, riempiendo righe su righe, senza dire alla fine nulla.
Mi soffermo. La brace occhieggia fra le ombre e mentre aspiro il fumo, che scende caldo nei polmoni, penso alle storie che ho già scritto, ai personaggi a cui ho dato vita, ai drammi, le commedie, le trame intricate e complesse… tutto continua a scorrere, consumandosi nella cenere di questa sigaretta. 

E allora mi chiedo perché. Perché scrivo ancora? Perché cerco altre storie, altri personaggi, altre location?

Perché sono colei che scrive. Sono colei che riempie le pagine con parole e locuzioni e aggettivi e verbi, cercando le imperfezioni, i sinonimi, le correzioni. Sono colei che ha scritto e scriverà ancora, continuando a bruciare la foglia sottile della carta che avvolge il tabacco, ticchettando con le unghie sulla tastiera, senza smettere mai.

Le mie emozioni sono lì, nero su bianco, evidenti, pubbliche, condivise con chiunque legga. I miei pensieri affiorano insieme a sentimenti, stati d’animo, rabbia, confusione, gioia, amore… non sono solo parole.

Esiste un significato dietro ogni singolo scritto, dietro ogni concetto espresso. Persino il modo con cui vengono accostati i soggetti con gli aggettivi e la scelta delle preposizioni o degli avverbi. Tutto ha uno scopo, tutto si trasforma in quel vettore che descrive me, che porta la mia anima nei circuiti stampati del mio pc, intrappolandola fra resistenze e condensatori.

Dunque non semplici predicati verbali e coniugazioni. Ogni lettera, ogni virgola, ogni simbolo impresso rappresenta qualcosa di me, un pezzo del mio essere, del mio modo di vivere, di esistere.

Ogni parola sono Io e ogni parola mi rende libera.

© 2015 di Irma Panova Maino

Intrecci

Intrecci

Impotente, inutile, sprecata. Allungo una mano nel nulla per ricongiungermi a te, sapendo bene che sentirò solo l’eco dei tuoi pianti.

Vedo i nodi che strangolano la tua anima, la straziano nel silenzio di chi, pur standoti accanto, non vede e non sente il dolore che ti soffoca.

Vorrei essere quella lama che spezza l’incanto, che trancia le corde avvinte intorno al tuo essere e lo lascia libero di poter spiccare nuovamente il volo. Vorrei portare i tuoi pesi, le tue sofferenze, lasciarti respirare l’aria fresca del mattino, di quell’alba che sorgerà dalle tue stesse ceneri.

Ma sono proprio le ceneri che temo. Volute contorte di pensieri perversi che addentano le viscere, senza portare a niente che non sia altro dolore. Serpi avvelenate che azzannano l’anima lasciandola a brandelli e alla mercé di chiunque.

Spire e spire di costrizioni che ti annegano nel tuo stesso oblio di un inutile quotidiano ed io peno con te la stessa solitudine, la stessa prostrazione. A nulla vale dire: “ci sono passata anch’io” se non a ricordare a me stessa quanto è già avvenuto.

Non voglio per te un simile tormento, non voglio vederti passare attraverso le stesse insopportabili braci, ma resto con la mano sollevata nel nulla, chiedendomi quando diverrà totalmente inutile.

© 2015 di Irma Panova Maino

Il Calore della notte

Il Calore della notte

Lente volute di calore salgono attorcigliandosi, raccogliendo in sé stesse le verità di ogni generazione. Le fiamme lambiscono le pareti annerite dai fumi, spingendo verso l’alto le ceneri di passati dimenticati e futuri mai esistiti.

Quante missive ho bruciato? Lettere d’amore, di rabbia, di pentimento e tradimento? Quanti versi conditi con lacrime e sorrisi? Quante prove ho distrutto nel mio animo infuocato?

Il mio calore a volte si è tramutato in gelo e le mie fiamme non hanno potuto scaldare chi si è perso e, con la rinuncia, ha ceduto alla sconfitta più amara. Nulla ho potuto contro le afflizioni cocenti e l’inganno umano. Ognuno ha affidato al mio discernimento il lascito della propria esistenza, eliminando sogni e speranze, annullando fra le vampe la dignità e l’onore degli uomini.

Le braci ardono per i cuori in fiamme ed il fuoco illumina le perle rilucenti sui corpi degli amanti. Il calore penetra nella solitudine, lasciando che sia lo spirito di chi guarda a vagare fra le spire e i tizzoni roventi, ritrovando un legame fra ciò che è stato e ciò che ancora potrà divenire. Nella notte la tenebra si disperde e addensa le ombre negli angoli più remoti, ma la menzogna ha lo stesso colore, con qualsiasi luce la s’illumini.

© 2015 di Irma Panova Maino