Il matrimonio

In che modo comprendi che è giunto il momento e che è lui l’uomo della tua vita?
Quando, guardandolo negli occhi, ti rendi realmente conto che desideri passare il resto della tua esistenza con lui?

Forse quando te lo chiede.
Forse quando s’inginocchia platealmente davanti a te con un bel mazzo di fiori in mano, dietro il quale il suo volto imbarazzato sparisce e ti chiede con voce tremante: “Vuoi sposarmi?”

Francamente, fino a quel momento, fino a quando non gli ho visto posare quel ginocchio per terra, non mi era passato nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di sposarlo e tanto meno di passare il resto della mia esistenza con lui. Tuttavia, proprio in quell’attimo in cui si schiariva la voce e dava fiato alle trombe, mi sono resa conto che non era così assurdo prendere seriamente in considerazione la proposta. In pochi secondi mi sono passati davanti agli occhi tutti i trentadue anni della mia vita, tutti gli uomini che ne avevano fatto parte, tutte le sconfitte e le vittorie e mi sono detta, perché no?

Credo che in effetti quel “perché no?” non fosse esattamente la motivazione migliore per convolare a giuste nozze, ma tant’è che dissi di sì.
Peccato che me ne pentii praticamente nell’istante successivo, stretta nel suo abbraccio mortale, mentre farfugliava quanto fosse felice della mia risposta.

A questo punto c’è da chiedersi perché non cercai subito di rimediare alla situazione e non cercai di porre un freno al suo entusiasmo. Se lo avessi fatto subito, avrei potuto contenere i danni, avrei potuto quanto meno evitare tutto il caos che si scatenò subito dopo e la sbronza colossale che mi presi entro la fine della serata e che mi tormentò con i suoi postumi per ben due giorni, forse tre.

Peccato che mi nascosi proprio dietro a quei calici che vennero levati per festeggiare l’evento, sorridendo come un ebete da dietro il bordo fine di cristallo, osservando il mondo impazzito attraverso le bollicine scoppiettanti dello spumante. Nemmeno il mal di testa del giorno dopo riuscì a farmi rinsavire, nemmeno quello ebbe il potere di riportare un po’ di buon senso nei miei pensieri alcoolici. E tutto questo perché, per tutta la notte, ero stata ulteriormente convinta dal mio promesso sposo, il quale si era lanciato in tutta una serie di performance degne del più navigato attore porno.

A seguito di una sollecitazione del genere, come potevo rifiutare? Come potevo tornare sui miei passi e dirgli semplicemente: scusa, lasciamo perdere?

Non potevo.
Non quando mi guardava con quei suoi occhioni azzurri e languidi, con quelle sue labbra imbronciate e mi sussurrava parole tenere e gentili alle orecchie, facendomi sentire l’orco e la strega cattiva in un miscuglio degno di Barbablù. Come potevo stroncare quella felicità che gli vedevo lampeggiare negli occhi, ogni volta che incrociavo il suo sguardo?
Ma cielo! Che diavolo stavo combinato?!

Forse non sarà stato il migliore degli uomini, ma era pur sempre una brava persona, un essere delicato e comprensivo, un uomo che riusciva comunque a infondermi una serie di sentimenti positivi. E nemmeno quelli erano una motivazione sufficiente per sposarsi.

Avevo sempre pensato che quando fosse giunto il fatidico momento della proposta, mi sarei sciolta nel romanticismo, mi sarei sentita annientata da un’esplosione emotiva stratosferica, mi sarei dissolta in lacrime e avrei finito per tremare come una foglia… non che sarei stata sommersa da ondate di panico.

E ancora una volta c’è da chiedersi perché non fermai quel circo che si scatenò intorno a me, trascinando nel vortice degli eventi sia gli amici che i parenti di entrambe le parti.

Perché calcolai, erroneamente, di poterlo sopportare. Di poter far fronte ai doveri e di potermi godere i diritti. A trentadue anni era anche ora che mi sposassi, che uscissi dalla lista delle zitelle, pardon, oggi come oggi si chiamano single per scelta, anche se per quella degli altri, e mi lanciassi in quell’avventura coniugale a cui, bene o male, ogni donna aveva diritto di approdare, superata la trentina.

A trentadue anni, con qualche rapporto naufragato alle spalle una serie di episodi più o meno tragici nella mia vita, probabilmente avevo tutti i diritti di meritarmi una stabilità e una sicurezza derivanti proprio da un matrimonio. In fin dei conti, se proprio fosse andata male, sarei stata una divorziata e non più una zitella.

Certo che pensare ai preparativi per le nozze con in testa l’idea che, semmai dopo, avrei sempre potuto fregiarmi del titolo di divorziata e non più di zitella, non era proprio il massimo. E questo avrebbe dovuto dare un’ulteriore misura di quanto fosse profondamente sbagliato il passo che mi accingevo a compiere. Perché non me ne resi conto?

Penso che a volte nella vita si opti per il male minore, per quello che pensiamo possa essere la soluzione ideale a tutti i nostri mali, dando una svolta definitiva a un percorso già fallimentare.

Forse se ci legassero a una sedia e ci ponessero davanti a uno specchio, magari la nostra stessa immagine potrebbe in qualche modo farci rinsavire, magari sputandoci in un occhio. Peccato che difficilmente venga fatto uso di specchi in questi casi e non per l’utilizzo per cui andrebbero usati.

Quindi, mi ritrovavo con un uomo in ginocchio, sprizzante gioia da tutti i pori, il quale si stava già lanciando nell’organizzazione dei preparativi mentre io restavo lì, attonita, a osservarlo in silenzio, con la mente che rincorreva pensieri confusi che sfuggivano continuamente a qualsiasi logica.

Avevo appena acconsentito al matrimonio, avevo appena posto una seria ipoteca sul mio futuro e avevo appena accettato di passare il resto della mia vita svegliandomi ogni maledetta mattina di fianco a lui.

Il sonoro e rimbombante clangore del portone della mia coscienza si richiuse con un tonfo assordante, dandomi la netta impressione di essere appena stata sbattuta fuori di casa. Di essere stata abbandonata nel nulla delle mie scelte sbagliate, con un enorme indice puntato verso l’infinito, sul quale vi erano scritte a lettere cubitali le parole: adesso arrangiati!
Quando non si dà retta al buon senso, non resta altro da fare che arrangiarsi.

D’altra parte, perché non avrei dovuto prendere in considerazione il mio futuro sposo? Era un bell’uomo, alto un metro e ottanta, bel fisico longilineo, capelli biondi, occhi azzurri, un tipo assomigliante alla John Voight, sorridente, spensierato, pronto a tutto per avermi… quindi dov’era il problema?

Purtroppo lo scoprii dopo dov’era il problema e capii anche che cosa il mio stramaledetto subconscio aveva tentato di comunicarmi prima del fatidico “sì”. Ma accidenti, perché il subconscio parla in aramaico antico quando tenta di comunicarti qualcosa di importante? Perché non si limita semplicemente a esporre i fatti in modo chiaro e preciso?
Perché forse ci sentiremmo ancora più degli idioti.

Dopo sei mesi restituii il mio sposo alla sua famiglia, depositandolo sul zerbino d’ingresso insieme alle sue valigie e a tutte le sue cose, cercando di non sottolineare l’ovvietà del fatto, ovvero che mi avevano rifilato un “prodotto” che non era adatto a me.

A lui piacevano gli uomini. Questo era il problema. E rendersene conto, trovandolo a letto con il testimone di nozze, non era stata esattamente una bella sorpresa. Non mi fece incazzare il fatto che fosse gay, mi fece diventare furibonda il fatto di avermelo taciuto.

Accidenti a lui… se me lo avesse detto chiaro e tondo fin dal primo momento, forse lo avrei sposato ugualmente, ma la menzogna non riuscii proprio a tollerarla. Tuttavia, ancora adesso mi chiedo come fu possibile per lui avere rapporti sessuali con me, viste le sue preferenze… non lo saprò mai e forse nemmeno lui.

© 2015 di Irma Panova Maino

Ero io il cacciatore

Mio era l’onere. Mie le sensazioni. La scelta era ricaduta istintiva, complice, naturale…

Sentivo la preda. Era confusa, incerta, lacera… Ed era l’odore del sangue che mi aveva condotta a lei. Quel timore manifesto, la frenesia, la ferita ancora aperta…

Perfetta. Era perfetta per la mia fame. Perfetta per il desiderio di carne e sangue, di possesso e conquista. Per la mia caccia.
Come una belva, trattenuta troppo a lungo, mi sono avventata, incauta, bramosa, cogliendo quell’attimo in cui la distrazione è divenuta fatale. Quel sentore pungente e accattivante del suo strazio ha scatenato i miei sensi, riducendoli in cenere, annientando ogni precauzione, ogni istinto venatorio, ogni regola così faticosamente segnata sulla propria pelle e sulle proprie ferite.

Fame. Nient’altro che cieca e sorda fame incontenibile, richiamata da quei fremiti guizzanti sotto una pelle pronta per essere lacerata, squarciata, dilaniata…

Zanne gocciolanti saliva e artigli protesi fino allo spasimo, occhi ardenti e famelici, concentrati per cogliere ogni sfumatura, ogni possibile tentativo di fuga… ero pronta.
Pronta per la mia preda.

E lei mi ha colto. Attanagliato e avvinghiato nel suo strazio, portandomi a fondo con lei, annegandomi in quel dolore infinito che pareva non avere confini né limiti.

Quanto potevo ancora ferire un animo così devastato? E quanta sofferenza potevo ancora infliggere, restando insensibile?

Porto la catena della mia scelta. Porto il collare che mi ha reso consapevole e volontariamente parte di una follia che non rinnego.

E questo peso, dolce per la verità, placa la mia fame, sazia il mio bisogno, lasciandomi nell’attesa di vedere comparire di nuovo la mia preda.

© 2015 di Irma Panova Maino

Dietro alle palpebre chiuse

Dedicato a Lu Paer e al suo costante impegno

Sono con te, fra le spighe dorate di quei campi soleggiati in cui anche l’aria ha l’odore del sole. Corriamo insieme, fianco a fianco e io ti sento ridere, spensierato.

Ed è felicità, quella sensazione che mi giunge sulla pelle, che mi fa dilatare le narici per cogliere ogni possibile sentore, ogni sfumatura di quella natura che generosamente spande il proprio dono odoroso nell’etere. L’odore fruttato dei meli e dei noccioli, quello fresco dell’erba, le fragranze colme di miele delle fresie e quello speziato dei gladioli… e, infine, quello tipico della lavanda, che mi ricorda tanto casa.

La nostra tana, il nostro angolo vissuto sul divano alla sera, guardando insulsi programmi in quella scatola che tu chiami televisione e di cui a me non importa niente. Ciò che realmente conta è stare con te. Accoccolato vicino al tuo corpo caldo e rassicurante, protetto dalla tua ombra. Ciò che conta è il suono della tua voce, la pressione delle tue mani, la dolcezza del tuo alito. Ciò che conta è sentire le tue sensazioni, capire che mi vuoi vicino, che ti rendo quella gioia che mi doni tutti i giorni. Ciò che conta è aprire gli occhi e saperti in giro per casa, alzarmi e trovarti in cucina mentre prepari la colazione per entrambi e ritrovarti ogni sera quando, tornando a casa, mi chiami da dietro la porta per essere certo che sono pronto ad accoglierti…

Non desidero null’altro che questo. Non voglio quell’improvvisa presenza fra noi, invadente e avversa.

Adesso ho paura, ho freddo, mi sento perso e inutile. Solo, come se non potessi più fare conto su di te, come se non fossero mai esisti i giorni passati insieme.

Sai cosa vorrei ora? Vorrei poter continuare a vivere e morire con te accanto, con il sentore della tua presenza nell’aria che mi circonda. Vorrei quel divano logoro e quelle quattro mura rassicuranti in cui è esisto il mio tempo. Vorrei una carezza ancora, anche solo un tocco leggero per confortarmi.

Ed è questo il sogno che continuo a scorgere in questa notte d’estate, dietro alle palpebre chiuse mentre, con il muso fra le zampe, mi chiedo perché mi hai legato qui, in questo posto estraneo colmo di quel rumore che ti ha portato via.

© 2015 di Irma Panova Maino

Cristalli di ghiaccio

“Che dice Capitano, un altro poveraccio morto dal freddo?” L’uomo chiamato in causa si strinse nel cappotto provando un brivido gelido e non tanto per la temperatura polare, quanto per l’ennesimo corpo rinvenuto durante quella settimana, inspiegabilmente deceduto a causa di un unico colpo inferto al petto. Un buco scavato fin dentro nel ventricolo, il quale aveva paralizzato il cuore, interrompendo qualsiasi funzione vitale e dai primi rilevamenti, le uniche tracce utili erano state dei cristalli ancora ghiacciati, rinvenuti all’interno di quel tunnel letale, come se l’arma fosse stata un punteruolo gelato oppure un pezzo di stalattite strappata da qualche cornicione.

Il Capitano alzò lo sguardo verso il proprio Maresciallo, scuotendo la testa sconsolato. “Queste morti mi stanno facendo perdere il sonno. Nessun testimone, nessuna traccia utile, niente di niente e non so più a quale santo votarmi.”
L’altro non rispose, non aveva nulla da aggiungere e in quella fredda mattina di febbraio, risparmiare sul fiato aiutava a trattenere il calore corporeo. Tuttavia un giornalista zelante non si lasciò sfuggire l’occasione di sorprendere il titolare del caso da solo, senza avere l’immancabile codazzo di cronisti, fotografi, reporter e cameramen al seguito.
“Capitano? Capitano una domanda!” L’altro sbuffò producendo una nuvola di condensa, che parve cristallizzarsi prima ancora di riuscire a disperdersi nell’aria.
“Merini, fa un freddo cane questa mattina, non possiamo rimandare?” Il giornalista sorrise allungando il proprio palmare sotto al naso dell’ufficiale.
“Capitano e quando mi ricapita più di beccarla da solo?”

Il Maresciallo, felice di non essere lui quello sottoposto alle domande della stampa, sgattaiolò verso la macchina di servizio, sfregandosi le mani e battendo i piedi prima di entravi. Al Capitano non rimase altro da fare che sorridere di buon grado, in attesa che il giornalista facesse il suo lavoro.
“Avanti Merini, mi faccia le sue domande e cerchi di sbrigarsi.”
“Ecco la prima Capitano, questo è il quarto morto in una settimana, si tratta forse di una vittima di un omicida seriale?”
L’ufficiale squadrò l’uomo con un certo astio, non sapendo se mandarlo subito a quel paese o trattenersi il tempo necessario per cercare di confutare certe ipotesi: scatenare il panico non era nell’interesse della comunità.
“Non userei certi termini, Merini. Parlare di serial killer è eccessivo.”
“Tuttavia non può negare che quattro cadaveri siano veramente tanti. Due uomini, una donna, un ragazzo… tutte persone diverse fra di loro, senza nulla che parrebbe accomunarle… a me sembra che…” L’ufficiale lo interruppe, prima che le divagazioni prendessero una piega imbarazzante.
“Senta Merini, se lei ne sa più di me, allora sono io che dovrei fare le domande a lei e non viceversa. Nulla lascia supporre che si tratti di un maniaco o roba del genere, quindi non scriva fesserie e non faccia congetture controproducenti!” Il giornalista non perse il proprio sorriso, ma negli occhi ogni traccia di divertimento si spense.
“Capitano, ci sono quattro morti che chiedono giustizia e la cittadinanza ha il diritto di sapere se può aggirarsi liberamente dopo le cinque del pomeriggio per le strade!”
“E chi glielo impedisce?” borbottò il graduato arrivando in prossimità della macchina, ma prima di riuscire a salire a bordo, il giornalista gli pose ancora una domanda: “Sono stati tutti uccisi con qualcosa di affilato, no? E lei questo come lo definisce?”

Per un momento i due uomini si guardarono negli occhi, ognuno cercando di decifrare quanto ne sapesse l’altro, alla fine l’ufficiale si produsse in un sorriso tirato.
“Maresciallo, porti il signor Merini in caserma, direi che è una persona informata sui fatti e forse è in grado di far luce su quello che per noi è un caso inspiegabile.”
“Ma lei non può…” protestò subito il giornalista.
“Non posso fare cosa? Interrogarla? Vogliamo vedere?”
“Senta Capitano, mettiamoci d’accordo, io le dirò quello che so e lei mi dirà quello che può.” L’ufficiale si lasciò sfuggire una risata alquanto amara.
“Quello che io posso dire? Andiamo Merini, ha voglia di scherzare! Le sue fonti sono migliori delle mie, a quanto pare. Io ho quattro morti che aspettano e nessun colpevole da portare ai miei superiori. Ho un’arma del delitto che pare inesistente e nessuna spiegazione valida.”
“Il ghiaccio Capitano, il ghiaccio. Sono stati uccisi con qualcosa di gelato, anche l’ultimo, non è vero?” L’ufficiale si appoggiò stancamente alla macchina, facendo cenno al Maresciallo di rientrare nel veicolo, come se la conversazione in corso dovesse rimanere privata. Guardò il palmare in mano al giornalista e questi, intuendo le intenzioni dell’altro, spense l’apparecchio e lo ripose in tasca.

“Merini cosa sa veramente di questo caso?” L’altro valutò per un istante che cosa rispondere, poi con un sospiro fece un cenno con la testa verso il punto in cui la scientifica stava ancora facendo i rilevamenti intorno al cadavere.
“Anche quello è morto pugnalato al cuore, no?”
“Sì Merini, anche quello. Allora cosa sa?”
Il giornalista tornò a fissare lo sguardo in quello del carabiniere e finalmente parvero intendersi.
“Conosco un barbone, che a sua volta conosce un altro barbone, che dice di aver visto qualcosa la sera dell’uccisione del ragazzo, quello uscito dall’università.”
“La seconda vittima?”
“Sì, quella. L’amico del mio amico dice di aver visto una strana cosa, una forma tutta bianca, aggirarsi per quel tratto di strada, ma nevicava troppo forte per capire esattamente che cosa fosse.” L’ufficiale parve trasalire.
“Come sarebbe a dire una forma bianca? Una forma di cosa? Di formaggio?” la tensione nella voce era palpabile, così come l’improvviso nervosismo del Capitano. Merini istintivamente fece un passo indietro, alzando le mani come per volersi difendere da un’eventuale accusa.
“Ehi, non sono io che sto dicendo questo! Nemmeno io ho capito che cosa voglia dire questa storia della forma bianca… oltretutto la mia fonte nell’Istituto di Medicina Legale mi ha confermato che le uniche tracce trovate, nell’unica ferita rilevata sui cadaveri, presentava residui di acqua piovana e una certa percentuale del pulviscolo presente nell’atmosfera. E questo fa pensare ad un’arma fatta con del ghiaccio. Lo so che sembra assurdo, ma sono giunti tutti alla stessa conclusione.”

Il Capitano sbuffò risentito.
“A qualcuno di quelli del laboratorio metto le manette ed un bavaglio! Va bene… e quindi? Questa forma bianca che forma ha?”
Il giornalista sventolò le mani come a voler cercare le parole adatte, ma non trovandole, alla fine sospirò di nuovo scuotendo la testa.
“Non lo so… non ho ben capito quello che ha tentato di dirmi il mio amico e credo che nemmeno lui abbia capito bene che cosa intendesse dire il barbone di sua conoscenza, ma sembra quasi che stiamo parlando del classico fantasma con un lenzuolo.”
Il Capitano sgranò leggermente gli occhi ed un lieve sorriso ironico si dipinse sulle sue labbra. “Un fantasma con lenzuolo? Come quello dei castelli scozzesi con tanto di catene? Ma andiamo Merini, non crederà veramente ad una panzana del genere?”
“Non so cosa credere Capitano, ma tutto questo è strano, non trova? Sono arrivato presto sul posto, questa mattina, ho visto anch’io che non c’erano impronte intorno al cadavere…”
“Non significa nulla, ha nevicato parecchio nelle ultime ore, qualsiasi traccia potrebbe essere stata seppellita sotto altri cumuli di neve!”
Tuttavia, proprio mentre lo diceva, il Capitano parve dubitare delle proprie parole e istintivamente lo sguardo corse verso il cadavere che veniva issato in quel momento sulla barella, per essere portato via da un’ambulanza in attesa.

Per quanto assurdo potesse sembrare, anche lui aveva avuto l’impressione che non vi fossero impronte intorno al cadavere, anche se queste avrebbero potuto essere nascoste sotto altri strati di neve fresca. E se mancavano delle impronte intorno al morto, allora cosa lo aveva ucciso? Un fantasma con un lenzuolo bianco, armato di un punteruolo fatto con il ghiaccio?
Scosse la testa senza nemmeno rendersi conto del gesto. Più ci pensava e più gli sembrava verosimile come ipotesi, ma era certo che nessuno avrebbe creduto ad una teoria del genere.

*

Fa freddo in questo immenso mondo candido e ghiacciato. Fa freddo e sento le estremità rigide, totalmente inutili. Non so nemmeno io perché mi trovo in questo stato, perché sono stato costretto in questa immobilità, rattrappito dentro a questo involucro.
Non ricordo nulla di ciò che è stato, nulla di quello che ho vissuto, provato, assaporato… sento la mia anima congelata alla stessa stregua delle mani o dei piedi. Vorrei poter dire che la mia vita sia servita a qualcosa, ma non ricordo nulla. Loro sono vivi, sono tutti vivi e questa certezza mi divora, mi strazia, rende la mia consapevolezza del mondo un luogo orribile in cui condividere il mio orrore.

Sento l’odio pervadere le mie vene inutili, riempirle con dell’acido astioso, dando vitalità a un corpo che non esiste. Loro mi guardano, mi deridono, mi girano intorno con le loro faccette insignificanti. Mi toccano, palpeggiano senza alcun riguardo per i miei sensi, i miei desideri. Sono invadenti, non si curano del male che potrebbero farmi, mi rimodellano pensando solo al proprio divertimento, alla gioia dei loro figli, piccoli vandali in erba. L’odio è il carburante che porta energia nelle mie forme, l’odio corroborante che fa smuovere il mio piccolo universo gelato. Vedo le altre vite scorrermi intorno e non posso interagire come vorrei, non posso comunicare… posso solo uccidere…

*

Il bambino guardò fuori dalla finestra. La sua camera si affacciava proprio sul giardino interno, dandogli la gioia di potersi godere la neve attraverso i vetri. La neve e quelle costruzioni fatte con mamma e papà, l’igloo, il pupazzo…
Per un momento rimase immobile a guardare quello spazio immacolato, delimitato dalla recinzione che circondava la proprietà, poi si agitò così all’improvviso sulla sedia da doversi afferrare al bordo della scrivania per non cadere.
“Mamma! Mamma, vieni a vedere! Il pupazzo di neve è di nuovo sparito!”

© 2015 di Irma Panova Maino

Vuoti inutili

Fantasmi di ere passate
come acidi scivolano sull’anima
corrodendo ricordi

E attraverso la soglia
si riversa
in un modo o nell’altro
l’assenza del vivere
dell’essere
del credere

Restano i vuoti
da entrambe le parti
come abissi
in cui l’affetto si perde.

E restano solo domande.

© 2015 di Irma Panova Maino

Sola

Sola
nel silenzio della mia anima sconfitta
nel candore della distesa artica
in cui il mio cuore alberga

Sola
nel caotico rumoreggiare
di un mondo che non ascolta
e arranca stanco verso mete lontane

Sola
rapita da fantasmi costruiti su misura
pronti a rodere gli armadi
come i tarli della mente

Sola
negli anni che passano
portandosi via speranze e sogni
racchiusi nel click di un ultimo invio.

© 2015 di Irma Panova Maino

Sogni infranti

Giovani anime si susseguono
sperdute nel proprio vagare incerto
Giovani cuori ancora palpitanti
incorniciati in realtà virtuali.

Sorridono al futuro che non hanno
piangono per i propri compagni
perduti fra i bit di un invio.

Stelle comete
che attraversano un mondo
costruito dai nostri falsi ideali.

Un mondo vuoto in cui
anche gli astri splendenti cadono
Lasciando l’ultimo sospiro
sopra i nostri sogni infranti.

© 2015 di Irma Panova Maino

Ringhi

Ringhio nella solitudine dei miei abissi
ringhio perché il suono mi tiene compagnia
ringhio per assicurarmi quegli spazi che sono vitali
che mi appartengono
e che vengono fin troppo spesso calpestati

Ringhio perché il giorno che affonderò
i canini nella carne
sarà  per strappare
e lacerare
e dilaniare ogni cosa
facendo tanti brandelli di me
riducendo in minuscole striscioline
ogni cosa
ogni ricordo
ogni pensiero che sia stato
e che non è più

Ringhio sentendo il sale sulle ferite
sentendo l’acido della bile
ringhio con la bava
che schiumando
macchia qualsiasi emozione

Ringhio sapendo che presto
avrò il sangue
che mi spetta.

© 2015 di Irma Panova Maino

Rewind

Ritorno in me
nel lento scorrere del tempo
accantonando stralci di ciò che sono
gettando via brandelli di bugie

Dove hai vissuto?
Dov’era il tuo animo
quando straziavo il mio?
Dov’era il tuo cuore
quando svendevo il mio?
Dov’era la tua mente
quando barcollava la mia?

Domande che non hanno risposte
ore che scorrono al contrario
riportandomi all’inizio
all’inizio di me

© 2015 di Irma Panova Maino

Ode alla catenella

Tu che scoli l’umana miseria
portando nei flutti le scorie
del vivere

Tu che vieni sfiorata
solo quando di necessità
si fa virtù

Tu che resti isolata
e denigrata
come un accessorio inutile

Tu che pendi
inerte e afflitta
lungo i muri dei nostri giorni

Tu
piccola catenella del mio wc
mi auguro di non doverti
riparare mai.

***

Breve

La catena non ha solo un capo, solitamente ne ha due.

© 2015 di Irma Panova Maino

Lame

È tramontato il sole
dietro le mie iridi chiuse

Nebbia e gelo
imperversano nel mio animo
lasciando che siano i pensieri
le lame che affondano

Lame…
Gli ultimi bagliori si riflettono
sull’acciaio
del carattere forgiato nel fuoco

Lascia che cali la notte
Lascia che sia il buio
ad ammantare le mie mani

Lascia che il sangue
diventi nero alla luna.

© 2015 di Irma Panova Maino

La tela

Scivolo lungo la via dei pensieri
fra spire colorate
falsamente innocue

Corde che s’attorcigliano
e strangolano

Tesso la tela di Penelope
Infinitamente

Tornando al mio ieri
che oscura il domani

© 2015 di Irma Panova Maino