La mia eternità

Vedo il tempo scorrere lento, fra le spire agognanti della mia solitudine. A nulla valgono le anime che mi circondano, tetri spettri di una vita che fu. A nulla serve quel lamento infernale che riecheggia nelle tenebre.

Sono solo. Solo come l’alba che ogni giorno illumina la vita e solo come il tramonto che precede la notte. Solo nel silenzio irriverente in questo luogo infame.

A nulla è servito l’amore, il desiderio, la speranza… Lei mi sfugge ancora. Lei ama a metà e nessuna delle due parti sono io.

Sono solo un’icona, il simbolo di ciò che non è vita, che non è calore, che non è la follia indecente racchiusa in quel sentimento conturbante che porta gli uomini sull’orlo del baratro. Attimo dopo attimo resto immune al passare del tempo, immobile nello scorrere delle ere, inamovibile come il monte che mi grava addosso, facendomi sentire il peso della sua ombra.

E tu, lassù… fratello ingrato, quante volte hai rivolto il tuo sguardo verso il basso, cercando il mio fra questi gironi immondi. Sono il solo a comprendere queste anime perse, il solo a sapere cosa voglia dire portare il marchio eterno, le catene che legano e strangolano e ti scagliano in quel desiderio terribile che non verrà mai soddisfatto. Prigioniero e carnefice allo stesso tempo, schiavo e padrone del medesimo fato.

Raccolto nel mio intimo per non cedere e non credere che vi sia esistenza migliore. Ma io so… so che esiste altro. E il fatto di sapere non consola, non lenisce, non guarisce, porta solo ad altra follia.

Inchiodatemi qui, alla mia croce pagana, al mio ceppo sacrilego! Datemi la dignità nella morte! Ma non lasciatemi ancora agonizzare in queste spire senza fondo, in questo marasma senza fine. Il mio dolore è il dolore degli uomini. Le mie lacrime sono le lacrime degli esseri che vivono e respirano e gioiscono e soffrono, prima di approdare qui. Perché dunque il mio destino è uguale al loro?

Se Dio sono, dove sono i miei privilegi, la mia divinità? Dove la mia magnificenza, la mia eternità? Che cosa mi rende un Dio? Cosa mi eleva al di sopra del comune mortale?

Non sono niente. Sono solo ombra e polvere, tenebra e disperazione. Sono solo sospiro e morte, afflizione e pena. Sono solo illusione e sconforto, inganno e dannazione.

Sono solo, eternamente solo.

© 2015 di Irma Panova Maino

La maledizione

Frammenti di vetro che spuntano dalle carni come gioielli preziosi, come diamanti che riflettono la tenue luce di un giorno che va spegnendosi, moltiplicando all’infinito le innumerevoli ferite di cui è cosparso il corpo.
Sangue che cola a lenti rivoli dalla carne slabbrata, spezzandosi sui bordi frastagliati, mentre si specchia in quelle superfici lisce che ne accentuano il rossore.

Il dolore diventa profondo per quest’anima fatta a pezzi, per l’essere che fu e che non è più e mai più sarà ciò che era.

Ti dissi allora che avrei messo a nudo la tua essenza, che nessuna maschera ti avrebbe protetto dall’immagine che sarei stata in grado di farti vedere. Ti dissi che era la mia maledizione e che chiunque si fosse attardato a guardare più a fondo nei miei occhi, avrebbe alla fine trovato se stesso e la natura celata dietro alle convenzioni, ai timori, alle incertezze…

Ti dissi che non vi era scampo dal fato, che nulla avrebbe potuto salvarti nel momento stesso in cui avrebbe prevalso l’incoscienza e tu avresti guardato, in cui non avresti potuto resistere e il tuo sguardo si sarebbe incatenato al mio.

Mi hai deriso. Hai detto che volevi osservare che cosa si nascondesse dietro alle mie iridi, che cosa vi fosse nel fondo della mia anima e che volevi comprendere quale fosse la mia reale natura. Non ti mentii allora e non l’ho mai fatto in nessun altro momento. Sul fondo di quelle iridi avresti visto te stesso, non avresti trovato me.

Questa è la mia maledizione, il mio dono oscuro, la capacità di far vedere alle persone ciò che realmente sono, spogliate di tutti i paraventi, i segreti, le facciate precostituite.

Io sono lo specchio. Io sono colei di fronte alla quale ogni menzogna viene svelata, ogni sotterfugio scoperto, ogni artificio distrutto. Io sono la vera immagine dell’IO che si riflette, la reale essenza di chiunque abbia la sfortuna d’imbattersi nei miei occhi. Io sono tutto ciò che ognuno cerca di nascondere nel profondo di sé stesso, sperando di non dover mai fare i conti con esso. Questa è la verità e lo sai. Questo è tutto ciò che posso fare.

Tuttavia non ho chiesto io il sangue e non ho preteso io che l’anima, spogliata di tutto, venisse a morire su questa cornice. Non posso raccontare una storia diversa solo per salvare la pelle di entrambi e non posso fare finta che tutto questo non uccida anche me. Per ognuno che non accetta la verità, io vado in frantumi, mi disintegro nei mille pezzi che poi esplodono ferendo la carne. Finisco in schegge acuminate che incidono e tagliano e creano ferite indelebili, rimanendo impresse nella memoria della pelle.

La verità mi lega a colui che guarda e mi costringe a condividerne il destino, poiché più a fondo guardi e più profondamente sveli il mio arcano e questo destino condiviso crea quel legame che mi porta a condividere il fato. Vorrei poter fare a meno di tutto questo, vorrei non portare un potere simile, non è né divertente né appagante, è solo maledettamente doloroso.

Porto sotto la pelle tutte le ferite di coloro che non hanno saputo resistere, di tutti coloro che hanno voluto vedere, pensando che non potesse essere così tragico specchiarsi, che non potesse essere reale una predisposizione del genere e, come Cassandra, continuo a mettere sull’avviso gli ignari, sapendo bene che non verrò creduta e che nessuno terrà da conto i miei avvertimenti. Nemmeno tu lo hai fatto e adesso se tu cedi, porterai i mille pezzi di me nella tua carne, conficcati profondamente nella tua anima. Se tu cedi, ucciderai anche me.

A te la scelta.

© 2015 di Irma Panova Maino

La lama

Racconto tratto da 7 giorni di follie. Vincitore dell’evento di giugno.

La prima volta che toccai una lama ebbi un fremito e non nego nemmeno che fosse di piacere. Non so quale mancato istinto di conservazione mi spinse a prendere in mano un coltello, ma non appena lo afferrai, per il manico ovviamente, provai l’irrefrenabile desiderio di passare i polpastrelli sulla lama. Acciaio, freddo, cromato, affilato… mi tagliai.

Ed era abbastanza logico immaginare che non sarebbe potuta andare diversamente, data l’inesperienza nel maneggiare un attrezzo pericoloso. Istintivamente appoggiai la lama sulla ferita, percependo il contrasto fra il calore del sangue e il gelo del metallo, quella sensazione mi diede un sollievo che non pensavo potesse esistere.

Nulla era riuscito a farmi provare un’emozione del genere. Nulla avrebbe potuto emulare quel turbamento dato da quel primo incontro. Non era stato il taglio in sé, non il bruciore o l’imbarazzante inadeguatezza nel rendermi consapevole del fatto che non ero avvezzo ai coltelli, era stata quella meravigliosa sensazione d’onnipotenza che mi aveva colto nel comprendere le reali potenzialità di quel mio nuovo gelido alleato. Nessun rimorso, nessun pentimento, solo il freddo lavoro di lama. Come una distesa artica, poteva donare bellezza nonostante la desolazione polare, una bellezza eterna, libera dagli schemi preconcetti e da qualsiasi limite dato dalla concezione umana.

Nonostante i cerotti, provai nuovamente a “sentire” sotto le dita la sensazione che il metallo donava ai miei sensi… e mi tagliai di nuovo. Non potevo resistere, non potevo esimermi dal toccare quella parte che continuava a baluginare dentro i miei occhi, arrivando direttamente ad accarezzarmi l’anima. Dovevo poter sentire quanto fosse fredda, quanto potesse essere pronta a soddisfare ogni mio oscuro desiderio.

E la punta… ah la punta è riuscita quasi a procurarmi un orgasmo. Sottile, dura, gelata e invitante! Pareva quasi la catarsi del mio esistere, la purificazione del modo inutile in cui trascorrevo le mie giornate, senza capo né coda. Per quanto potesse essere freddo il materiale, riusciva in ogni caso a scaldarmi il cuore, a pormi in quella condizione d’estasi in cui la realtà svaniva lasciando il posto alla fantasia.

E allora accarezzavo la lama gelida, ormai attento a non procurarmi nuove ferite, lasciando che il tatto godesse di quella mancanza di calore, mancanza di vita, mancanza di rotondità. Solo freddo e duro metallo, pronto per far scaturire nuova linfa, attingendo da altre fonti e reclamando ciò che non avrebbe mai potuto essere: vivo e caldo.

Forse è per questo che amo le lame, perché sono come me, perché sulle loro superfici si riflettono le perversioni umane, la colpevolezza degli uomini. Forse è per questo che gioco con le lame, perché attraverso la loro freddezza sanno donare colore e calore.

Per sempre vostro, Jack

© 2015 di Irma Panova Maino

L’appuntamento

Era lì, sotto la pensilina, a malapena riparata da quella pioggia sottile che caratterizzava il tempo autunnale. L’umidità penetrava attraverso i tessuti, inumidendoli e ghiacciando le ossa.

Come ogni sera arrivava intorno alle dieci e mezza e si fermava nel solito angolo, in fondo sulla destra, nel gabbiotto della fermata dell’autobus, aspettando quel mezzo che l’avrebbe riportata a casa. Come sapevo che andava a casa? Perché più di una volta l’avevo seguita, avevo calcato le sue stesse orme, calpestato lo stesso selciato ed ero giunto davanti al portone di quella bassa palazzina a due piani in cui abitava.

Lei sapeva, mi aveva visto, riconosciuto dopo la prima volta che, avendo preso coraggio, mi ero avventurato dietro di lei, cercando di comprendere che cosa mi attirasse tanto di quella donna. Donna? Non dava l’idea di essere particolarmente in là negli anni, forse poteva averne trenta, trentacinque al massimo, anche se l’aria dimessa, timida, un po’ sciupata, non le rendevano giustizia.

E non era nemmeno questa gran bellezza. I capelli biondi avevano la stessa opacità della stoppa e forse anche la stessa consistenza; più di una volta aveva dimenticato l’ombrello e le ciocche le pendevano, rilasciando enormi goccioloni sul tessuto impermeabile dello spolverino grigio che normalmente usava, spuntando da sotto quel ridicolo cappellino da pescatore, grigio anch’esso. E quando non pioveva, e la temperatura lo permetteva, la sua capigliatura testimoniava il disperato desiderio di un parrucchiere, che desse almeno un taglio decente a quella chioma incolta.
Quindi non erano stati i capelli ad attirare la mia attenzione.

Sicuramente nemmeno il corpo.
Per quanto non fosse mai stata abbastanza scoperta da lasciare intravedere le forme, ciò che si intuiva, da quel poco che si vedeva, lasciava alquanto a desiderare.

Portava sempre delle gonne a quadri, in stile scozzese, con dei colori che andavano dal marrone al beige, miste a delle punte di verde; quelle sottane arrivavano fin sotto al ginocchio e il resto della gamba metteva in mostra un polpaccio abbastanza magro e striminzito. Quindi niente di particolarmente tornito e accattivante. Inoltre usava dei mocassini che toglievano ogni pretesa di femminilità a un essere che gridava pietà già di suo.

Allora cosa?
Forse il viso… ecco, sì. Credo che sia stato il viso a farmi accorgere della sua esistenza.

Un volto che, per quanto un poco smunto, riusciva a mettere in risalto gli occhi e la bocca. Occhi scuri come le tenebre più fitte di una notte senza luna e labbra piene e carnose, pronte a riportare alla memorie visioni voluttuose, cariche di una sensualità strabiliante. Soprattutto sorprendente, visto il personaggio.

Quindi ancora una volta mi trovavo dall’altra parte del marciapiede, semi nascosto dall’androne del portone nel quale normalmente mi rifugiavo per spiarla, sapendo che lei era al corrente del fatto che fossi lì, anche se non aveva mai voltato lo sguardo nella mia direzione.

Quindi come facevo a essere così certo che lei sapesse? Per quel sorriso appena accennato che le curvava le labbra, quella piega ironica che sembrava volermi invitare a osare, la postura languida del suo corpo ossuto e magro.

L’avevo sognata, non riesco nemmeno a negare l’evidenza che mi coglie ogni volta che ripenso a lei e l’eccitazione che mi porta a diventare febbrile, quando si avvicina il momento del solito appuntamento serale. La desidero, più di quanto io abbia mai desiderato una donna. E la bramo a tal punto che sarei disposto a correre qualsiasi rischio pur di riuscire a toccarla. Allora perché non mi decido? Perché semplicemente non attraverso quel maledetto tratto di strada che mi divide da lei e non le vado incontro, salutandola e rivolgendole qualsiasi frase che possa aprire un dialogo? Perché rimango qui, ogni sera, racchiuso nella mia ombra, sperando che sia lei a compiere quel gesto che io non riesco a fare?

Non lo so perché, me lo sono chiesto molte volte, me lo sto domandando da tre mesi a questa parte, quando, alla fine dell’estate, per la prima volta l’ho vista sotto quella pensilina.

Quel primo giorno di settembre ero uscito tardi dall’ufficio e stavo rincasando stanco e nervoso dalla giornata carica di problemi che avevo affrontato. Non ero dell’umore giusto per accorgermi di una femmina e non ero nemmeno sufficientemente attento per rendermi conto che lei era lì, in quella sua solita postazione.

Che cosa avesse improvvisamente attirato il mio sguardo, che cosa mi abbia fatto sollevare la testa, ancora oggi non lo saprei identificare, ma fatto sta che all’improvviso, il mio sguardo aveva abbandonato il granulato del cemento con cui era stato ricoperto il marciapiede, nonché la punta delle scarpe che ritmicamente apparivano nel mio campo visivo ed era volato verso l’altra parte della strada e verso la fermata dell’autobus, a malapena illuminata da un lampione poco distante. E più mi avvicinavo, percorrendo parallelamente il tratto in cui era lei, più i miei occhi faticavano a staccarsi dalla sua figura, fino alla ridicola situazione che mi poneva in una contorsione dolorosa, nella quale il mio collo sembrava sul punto di svitarsi. Inutile dire che ero tornato sui miei passi, giusto in tempo per vedere arrivare l’autobus sul quale era salita, sparendo dalla mia vista.

Da quella prima sera ero tornato tutti i giorni e tutte le volte in cui ero arrivato, se non era già sul posto, sembrava apparire da un momento all’altro, proprio in quell’unico attimo in cui accadeva qualcosa che mi costringeva a distogliere l’attenzione. Qualcosa come una macchina che passava all’improvviso, un temporaneo black out dell’unico lampione che riusciva a illuminarla… oppure un pipistrello che decideva di lanciarsi in picchiata proprio nel punto in cui sostavo… e quella del pipistrello era avvenuta la volta in cui avevo fermamente deciso che non le avrei staccato gli occhi di dosso.

Volevo vedere da che parte arrivava, volevo sapere qualcosa in più su di lei, ma per quanto io mi sia sforzato, alla fine tutto ciò che possedevo era il suo indirizzo. Certo, non era un fattore da sottovalutare, ma non ritenevo che potesse essere sufficiente per un primo approccio.

Tuttavia ormai ero ossessionato da lei, pazzo di desiderio alla stessa stregua di un maniaco o di un pervertito ed ero fermamente deciso a compiere quel passo che mi avrebbe condotto da lei.

Tentai di muovere i piedi, ma parevano essersi incollati al marmo dell’androne. Provai e riprovai fino a quando finalmente riuscii a strisciare per una decina di centimetri in avanti, uscendo quasi dal portone. Mi ero talmente concentrato sull’atto d’infondere energia nei miei arti inferiori, da non essermi nemmeno reso conto di aver distolto gli occhi da lei e quando rialzai lo sguardo, orgoglioso del mio misero traguardo, la sorpresi intenta a fissarmi.

Per la prima volta mi guardava direttamente negli occhi, apparentemente interessata ai movimenti. Rimasi raggelato. Cosa dovevo fare, sorriderle? Farle un cenno con la mano? Oppure sarebbe bastato un ammiccamento?
Non feci nulla, di nuovo rimasi inebetito a fissarla, rimanendo raggelato dalla sua fissità e dal fatto che non dava alcun segno che mi facesse sperare in un’apertura. Se solo avesse mosso un dito, sarei schizzato dall’altra parte con la stessa velocità fulminea di una saetta.

Restammo a fissarci da una parte all’altra della strada, con la pioggerellina uggiosa che continuava a stendere la propria coltre umida su entrambi. E proprio quando ormai stavo per perdere qualsiasi speranza, quando ormai stavo per maledirmi a vita, insultando tutta la genealogia che mi aveva trasmesso un patrimonio genetico così debole, lei finalmente fece qualcosa di totalmente inaspettato. Un gesto così inusuale e straordinario da costringermi a strizzare gli occhi per timore che fosse soltanto un’illusione dovuta dalle mie frustrazioni. Tuttavia, quando risollevai le palpebre, lei sorrideva ancora.
Sorrideva a me.

Il respiro parve bloccarsi nella gola e il cuore ebbe un fremito tale da provocarmi una sensazione di disagio. Avevo come la sensazione che l’organo sarebbe potuto anche scoppiare, se avesse continuato a fibrillare in quel modo.

Non poteva essere, non era possibile che stesse sorridendo proprio a me!
Eppure era esattamente ciò che stava accadendo e quelle labbra si aprirono in modo così sensuale, da farmi pensare a ciò che avrei voluto fare con esse.
Le gambe si sbloccarono e io tornai a essere il padrone assoluto e incondizionato dei miei arti, mossi ancora un passo e poi un altro e proprio nell’attimo in cui la punta della mia scarpa destra sfiorò il bordo del marciapiede, un movimento ai margini del mio campo visivo attirò la mia attenzione. E non solo la mia.

La vidi voltarsi verso destra nello stesso istante in cui lo feci io. Girammo il capo con una sincronizzazione che sarebbe apparsa persino ridicola, se non fosse stato per il disappunto che mi colse non appena compresi a cosa era dovuta la mia distrazione.

Un uomo.
Un perfetto estraneo si stava avvicinando a lei a passo spedito, con il cappotto lungo che gli avvolgeva le gambe, le mani in tasca come a voler sembrare indifferente e innocuo e lo sguardo che non sembrava essersi accorto di lei.

Tuttavia, dal momento che puntò proprio direttamente verso la donna ferma sotto la pensilina, era fin troppo evidente che sapesse della sua presenza. Rimasi indeciso, dovevo raggiungerla e fare finta di conoscerla, in modo che lo sconosciuto non si avvicinasse troppo? Oppure dovevo tornare a ritirarmi nell’ombra e aspettare di vedere che cosa sarebbe accaduto?

Istintivamente tornai sui miei passi e prima ancora di rendermene conto, finii di nuovo nel mio androne. L’uomo era ormai arrivato fino a lei e le stava parlando. Da dove ero nascosto non potevo udire che cosa si stessero dicendo, ma l’atteggiamento di lei lasciava intendere un certo nervosismo. Pareva quasi sul punto di spiccare un balzo e fuggire via.

Eppure in pochi attimi tutto parve precipitare, tutto si capovolse e parve sgretolarsi insieme a una realtà ormai totalmente distorta. Lui estrasse un coltello a scatto da una delle tasche e lo puntò con decisione verso di lei.

Oh cielo… non aveva l’aria del delinquente! Non sembrava uno di quei personaggi da incubo che popolavano le cronache nere… eppure la lama nella sua mano brillava in modo inequivocabile. Ero già pronto a precipitarmi verso di lei, quando ancora una volta tutto parve ribaltarsi. Come se qualcuno avesse deciso di infilare la realtà dentro a un frullatore, ciò che pensavo non aveva nulla a che vedere con quanto stava accadendo. Se avevo erroneamente creduto che fosse lei la vittima, in pochi secondi lei aveva distrutto ogni mia convinzione.

E l’uomo non poté niente contro quelle zanne che gli vennero conficcate nella giugulare, squarciandogli la gola. Il serramanico cadde tintinnando sul marciapiede, riempiendo di echi sinistre il silenzio della notte.

Rimase solo lei. Lei con la bocca ancora incollata alla carne dello sprovveduto. Lei che, nel mentre si cibava con evidente gusto, si voltò contorcendosi intorno all’uomo e puntò di nuovo i suoi occhi su di me.
Ora sapevo e ciò nonostante, non smisi mai di arrivare ogni sera al mio appuntamento, aspettando il mio turno.

© 2015 di Irma Panova Maino

Inatteso

Sfogliavo le pagine di facebook pigramente, lasciandomi pervadere da una velata noia, cercavo qualche nuova bacheca in cui poter pubblicare la copertina del mio nuovo libro e quelle che trovavo le avevo già visitate più volte. Sbuffai.

Niente di nuovo, niente che non abbia già visto ed abbia già percorso e, mentre giocherellavo, curiosando fra le pagine preferite da altri, improvvisamente un nome solleticò la mia curiosità: la rivista dell’immortale. Senza nemmeno rendermene conto volai attraverso il web e mi ritrovai ad osservare con attenzione la pagina dedicata al nominativo che avevo visto.

Ehi! Pensai animandomi all’improvviso. Una rivista dedicata al settore, specializzata nel genere che trattavo nei miei romanzi: il sovrannaturale. Personalmente ero un’appassionata scrittrice di racconti basati su vampiri e licantropi, ma avevo anche spaziato nel mondo dei demoni e degli elfi, tuttavia succhiasangue e palle di pelo erano ancora i miei protagonisti preferiti, attratta com’ero stata, fin da piccola, da quella loro natura selvatica e dominante. Ovviamente sapevo che le mie erano solo le fantasie di un’adolescente, che se l’era portate dietro fin nell’età adulta, ma sognare non era ancora proibito e lasciare correre la fantasia nemmeno. Quella rivista faceva al caso mio!

Senza pensarci due volte lasciai un messaggio in bacheca, in cui chiedevo se mi fosse stato possibile pubblicizzare il mio libro tramite loro. Non sapevo chi c’era dietro quella pagina e per non sbagliare avevo utilizzato il plurale. Una volta compiuto il mio dovere auto promozionale, mi rilassai sul divano e ricominciai a vagare nel social network, dimenticandomi per il momento della scoperta. Era tardi, l’ultima volta che avevo guardato l’orario erano le due passate di notte, quindi non mi aspettavo davvero che qualcuno rispondesse in modo così tempestivo e quando apparve il segnale che m’indicava che era appena arrivato un messaggio pubblico, rimasi piuttosto sorpresa. Chi diavolo era sveglio a quell’ora? A parte me, naturalmente. Qualcuno della rivista mi aveva appena risposto che era ben lieto di pubblicare il nostro libro.

Nostro? Pensavo che si stesse sbagliando, ma il messaggio successivo, questa volta privato, mi lasciò piuttosto perplessa. Il personaggio che mi stava rispondendo e che aveva creato un proprio identificativo, firmandosi appunto l’Immortale, mi chiedeva informazioni più specifiche sul mio libro, dal momento che intendeva inserirlo nel prossimo numero della rivista. Il tutto condito con un voi piuttosto arcaico. Rimasi a fissare il computer per qualche secondo, senza riuscire a decidermi se ridere o prenderlo per matto. Alla fine, la necessità di trovare nuovi sbocchi in cui riuscire a pubblicizzarmi ebbe la meglio.

Così gli risposi. Gli diedi tutte le informazioni che mi aveva chiesto e dal più confidenziale tu, che si usa normalmente, ero già passata ad un più educato lei. Ma non era ancora sufficiente, mi accorsi, nella risposta successiva, di essere passata anch’io ad un voi arcaico. Ci scambiammo vari messaggi in cui decantavo comunque la rivista, dal momento che la trovavo veramente interessante, chiedendogli informazioni in merito alla prossima uscita, alle scelte editoriali e la possibilità di essere mantenuta aggiornata in merito. Mi rispose sempre con una cortesia trattenuta, appena accennata, mai fuori dalle righe, mai inopportuno. Gentile quanto bastava per farmi capire che era discretamente contento che qualcuno s’interessasse, ma mai entusiasta per aver acquisito un nuovo lettore.

Tuttavia mi piacque. Mi piacque quella discrezione, quella continua pacatezza che traspariva così evidente dal modo di scrivere, dalla scelta delle parole, dalla costruzione delle frasi. Non un punto esclamativo, niente faccine anche quando lo avevo fatto sorridere, piuttosto aveva messo fra due asterischi la parola sorride, per indicarmi che era rimasto compiaciuto… insomma nulla di quell’euforia, a volte esagerata, che normalmente sottolineava i discorsi fatti in rete. Alla fine, quando ci salutammo, erano già passate le tre.

Caspita, così tardi?! Stavo già per ricominciare a girovagare per il web, quando giunse un nuovo messaggio abbinato alla rivista che avevo in effetti condiviso sulla mia bacheca, da parte di un altro nottambulo che, come me, evidentemente non riusciva a prendere sonno. Questi mi chiedeva chi diavolo fosse l’Immortale. A grandi linee tentai di spiegarlo, ma mi resi subito conto che era fiato sprecato, tanto il personaggio non avrebbe capito ed io non avevo alcuna voglia di lanciarmi in divagazioni inutili e solo perché lui era insonne. Con mia grande sorpresa mi giunse un nuovo messaggio privato, proprio dall’Immortale in persona. Aveva seguito lo scambio di battute che era intercorso fra me ed il Nottambulo e mi stava fornendo delle spiegazioni che non era assolutamente tenuto a dare. Nel giro di pochi minuti ci scambiammo delle impressioni che allinearono in qualche modo il mio punto di vista con il suo… o il contrario, non avrei saputo dirlo, ma improvvisamente avvertii una strana affinità con quel personaggio, una strana empatia positiva che mi spingeva a voler comunicare ancora.

Mi chiese perché scrivevo di vampiri ed io tentai di spiegargli che ero sempre rimasta affascinata dalle creature , fin dalla più tenera età. Cercai di fargli capire la sensazione di struggente perdita che aveva provocato in me il Nosferatu di Klaus Kinski, oppure la dannazione del Dracula interpretato Gary Oldman, oppure ancora la triste sensualità di quello interpretato da un giovane Frank Langella, tentai di esprimere la mia totale ed incondizionata solidarietà per una creatura privata del proprio diritto di vivere e morire. Mi chiese se mi piacevano anche i licantropi nello stesso modo, ed io obbiettai che il licantropo era molto più terreno, molto più vitale nelle proprie scelte, più selvaticamente erotico proprio per il lato animale che scatenava fantasie proibite, ma nulla aveva a che vedere con il desiderio struggente del vampiro verso la vita. Passammo le successive due ore senza nemmeno renderci conto dello scorrere del tempo e poi, d’un tratto, mi chiese scusa, mi disse che aveva ancora del lavoro da fare e, salutandomi con una cortesia infinita, mi diede la buonanotte e chiuse le comunicazioni. Per tutto il tempo avevamo comunicato mantenendo intatto quel voi che mi aveva così colpita all’inizio.

Il giorno dopo andai a curiosare nel suo profilo e lo scoprii subito blindato, non vi era alcun accesso alle sue informazioni personali e la pagina dedicata alla rivista, riportava informazioni inerenti la pubblicazione e nient’altro che potesse richiamare qualcosa di più indicativo. Rilessi quanto avevamo scritto quella notte e mi resi conto di provare un brivido piacevole nel leggere le sue domande e le sue risposte, ad un certo punto aveva persino iniziato a lasciarsi andare, regalandomi qualche stralcio di sottile umorismo, sempre appena accennato. Fu quasi con gioia che accolsi il suo messaggio serale, in cui mi chiedeva come stavo. Gli risposi subito, rendendomi conto che non avevo atteso altro per tutta la giornata. E quando iniziò ad avvicinarsi l’alba e lui mi salutò di nuovo, sempre mantenendo quel riserbo che gli era tipico, mi accorsi, rileggendo nuovamente la conversazione, che gli avevo praticamente raccontato la storia della mia vita. Passo dopo passo, era riuscito a farmi dire più di quanto io avessi mai svelato ad un perfetto estraneo, oltretutto in chat.

C’era da premettere che odiavo le chat, odiavo tutti i social network e odiavo tutto quanto portava la gente a comunicare esclusivamente attraverso una tastiera ed un monitor anonimo. Mi erano sempre piaciuti i rapporti diretti, in cui le espressioni vocali avevano la stessa fondamentale importanza della tonalità con cui venivano pronunciate. L’interazione personale dava modo di capire, al di là della conversazione pura, ciò che realmente l’interlocutore ambiva condividere. Bastava un cenno con le mani, una tensione delle spalle, un irrigidimento dei muscoli facciali, vi erano tante indicazioni puramente fisiche, che completavano la comunicazione stessa, che non potevano in nessun modo trasparire dal monitor. Tuttavia, nonostante questo, ciò che ci eravamo scritti trasmetteva delle sensazioni molto vivide, molto reali. Emozioni che scaturivano da ogni frase, dalle parole accurate e da quel voi che improvvisamente era diventato più intimo e coinvolgente di un tu più spartano.

La terza sera rimasi profondamente delusa, non mi mandò alcun messaggio e quando tentai, con una scusa banale, di comunicare con lui, non ottenni risposta. Tutto pareva tacere e quella tastiera rimase praticamente inerme per tutta la notte. Non risposi agli inviti degli amici a conversare, non girai da nessuna parte, non feci nulla se non rimanere con la pagina aperta sulla chat privata, con la speranza di scorgere un cenno da parte del mio personaggio misterioso che si firmava l’Immortale. Lessi e rilessi quanto avevamo scritto fino a quel momento e man mano che procedevo nella lettura, mi divenne sempre più evidente il fatto che lui si esprimeva senza alcuna fatica, in quel modo arcaico che mi era ormai così famigliare. Come se non avesse fatto altro per tutta la vita, che utilizzare certi termini vetusti e costruire le frasi con uno stile quasi medioevale. Non c’era alcuna incertezza, alcuna titubanza. Ricordavo alcuni passaggi in cui io avevo impiegato un certo tempo nel dover rispondere, dal momento che alcuni concetti, tipicamente moderni, non trovavano un facile riscontro nel doverli esprimere con metodi più antichi. Come avrei potuto esternare un concetto come: viviamo nella merda e speriamo che la crisi finanziaria venga superata velocemente, prima di fare la fine della Concordia?   

Come, dovendo utilizzare uno stile dantesco? Quando alla fine ero riuscita a mettere insieme alcune frasi, che mi parvero piuttosto buone, quanto meno da un punto di vista stilistico, lui mi rispose immediatamente, nel giro di pochi secondi, riuscendo a disquisire sul fatto che la nostra precisa epoca storica, travagliata e ricca d’incertezze, poteva portare solo ad ulteriori tensioni, le quali sarebbero sfociate in un malessere incontenibile. Ma solo rileggendo dopo il tutto, capii queste sottigliezze, questo suo modo di procedere spedito, su un terreno che era davvero congeniale a pochi. Se non fosse sembrato assurdo, avrei detto che le sue abituali espressioni nascevano proprio dall’utilizzo costante e continuo di un lessico ricercato, ma fuori dai tempi. Mi chiedevo se andasse dal salumiere e ordinasse due etti di prosciutto con lo stesso tono, ma probabilmente, forse, uno come lui non andava nemmeno dal salumiere, mandava qualcun altro.

Dunque arrivai alle sei del mattino totalmente insoddisfatta e profondamente delusa dal fatto che non si fosse fatto vivo, che non avesse scritto nemmeno una virgola e quell’amarezza divenne ulteriormente fastidiosa nel momento stesso in cui mi accorsi di quanto ero irritata per il suo silenzio. La mia rabbia si alimentava da sola. Cercai di dormire, ma ero talmente furibonda da non riuscire a trovare il rilassamento necessario per lasciarmi andare al sonno, mi giravo e rigiravo nel letto, tentando di scacciare i pensieri molesti e tentando soprattutto di non pensare alle motivazioni che lo avevano spinto a disertare la chat. Prima di venire finalmente abbracciata da Morfeo, riuscii comunque a formulare un pensiero ancora più molesto.

Com’era stato possibile che fossi diventata dipendente da uno schermo? Io che avevo sempre odiato quel mondo virtuale, in cui ognuno si nascondeva dietro all’anonimato fornito proprio dal mezzo di comunicazione, in cui ogni faccetta racchiusa nei quadratini dei profili poteva nascondere lo psicopatico di turno, come avevo potuto lasciarmi coinvolgere in quel modo? Che diavolo stavo facendo? Ma non ebbi risposte, non riuscii a darmele dal momento che piombai in un sonno agitato, confuso, ricco di incongruenze e personaggi folli.

Ciò che mi destò fu il suono del mio cellulare, il quale m’indicava che era arrivato un messaggio per me su facebook . Brontolando sottovoce scivolai fuori dal letto, cercando di non inciampare nelle coperte che mi si erano avvolte intorno, durante il sonno e sempre brontolando gettai un’occhiata astiosa al portatile che mi guardava beffardo dalla sua postazione al centro del tavolo. Vivere in un monolocale aveva decisamente i suoi vantaggi, tutto era a portata di mano e non era necessario fare i chilometri per raggiungere il bagno in caso di necessità urgenti. Mentre andavo a darmi una sciacquata alla faccia, non mi resi subito conto del fatto che il portatile era acceso, mi ero addormentata intorno alle sei del mattino, mi ero svegliata che fuori era già buio, quindi avevo dormito tutto il giorno e in tutto quel tempo il portatile avrebbe dovuto spegnersi ed entrare in modalità standby. Presi appunto della stranezza solo quando, sotto la doccia, improvvisamente la consapevolezza mi fulminò il cervello. Non era possibile, qualcosa non stava andando per il verso giusto!

Mi sciacquai rapidamente e nel giro di pochi secondi fui davanti a quel monitor che continuava ad osservarmi con aria sarcastica. Le icone dei messaggi lampeggiavano malefiche, riportandomi allo stato d’animo irritabile della mattina. Per un momento mi venne voglia di non aprire la tendina che avrebbe rivelato chi era colui che mi aveva cercata, per un momento rimasi lì, immobile, con il dito sospeso sopra il mouse, indecisa se togliermi ogni velleità o se farmi venire nuovi dubbi. Istintivamente gettai un’occhiata alle mie spalle per assicurarmi che fosse veramente buio e quando diedi finalmente uno sguardo all’ora, scoprii, e non senza un certo stupore, che erano quasi le dieci di sera. Il dito finalmente diede la giusta pressione alla leva che fece scattare il tasto sinistro del mouse a la tendina scese, aprendosi su quanti mi avevano cercato. Ben ventisette messaggi riempivano tutto il monitor e di quei ventisette, dieci erano dell’Immortale.

Non mi sedetti nemmeno, in piedi davanti alla scrivania, iniziai a farli scorrere febbrilmente, pervasa da una strana eccitazione. Mi sentivo lo stomaco annodarsi e dipanarsi nuovamente per poi tornare a torcersi in preda a spasmi incontenibili. Mi sentii come una scolaretta alla prima cotta, in preda alle prime pulsioni adolescenziali. Non riuscivo nemmeno a stare ferma e continuavo a spostare il peso da un piede e l’altro, tentando di scaricare in qualche modo la tensione. Cielo! Possibile mai che dovessi sentirmi come un’idiota?

Idiota o meno, divorai famelica tutto quello che mi aveva scritto, cercando di frenare la curiosità che mi spingeva a saltare a piè pari le parole, per raggiungere il messaggio conclusivo. Mi sentivo incontenibile, esageratamente sensibile ad ogni virgola. Tuttavia le sue comunicazioni erano sempre pacate, sempre misurate e sempre velate con quella sottile ironia che avevo imparato a riconoscere. Aveva iniziato col scusarsi per la defezione della sera precedente ed aveva tentato di spiegarmi, in modo alquanto generico, che alcuni impegni improvvisi lo avevano costretto a rimanere lontano dal suo appuntamento serale con me.

Appuntamento? Era questo, quello che avevamo? Da quando? Tuttavia mentivo a me stessa, anch’io ormai lo avevo considerato alla stessa stregua di un appuntamento, con la stessa serietà con cui si prendeva un impegno classico. Le successive comunicazioni vertevano più che altro sulle mie mancate risposte e via, via che procedeva, il tono diventava più laconico e sintetico. L’ultimo messaggio si limitava ad un punto in una stringa vuota, come ad indicare che aveva esaurito le sollecitazioni con cui mi pregava di rispondere e le scuse con cui aveva tentato di giustificare la sua assenza. Ora toccava a me. Era mio il compito di riannodare quel filo che si stava sciogliendo a causa del mio silenzio.

Capii, senza bisogno di spiegazioni, che da come avessi risposto, avrei dato una svolta a quel rapporto singolare, decretandone la metamorfosi. Era fin troppo evidente che non poteva più rimanere lo stesso, che entrambi, in qualche modo, ci eravamo impegnati a stabilire un contatto serale, uno scambio emotivo di pareri che non avevano fatto altro che intrecciare quel sottile filo che ci univa. Quindi cosa rispondere? Come fargli capire che ero irritata senza cadere nel ridicolo? Digitai semplicemente: “scuse accettate.”

Quindi levai l’accappatoio che nel frattempo si era infradiciato e, gettando continue occhiate al monitor, m’infilai al volo una maglietta che a malapena mi copriva le natiche nude. Pochi istanti dopo giunse la sua risposta:

“Pensavamo di avervi persa ed era intollerabile un simile tormento.”

Il cuore mancò un colpo. Parve fermarsi e ripartire con uno scatto accelerato che mi costrinse a portare una mano al petto, per timore che volesse saltare fuori dalla cassa toracica. Dio! Sembrava tanto una dichiarazione. Gli risposi che non era colpa mia se si era fatto inghiottire dalle ombre della notte e la sua successiva osservazione mi procurò un altro brivido. Mi chiese se avessi paura delle ombre. Dissi di no, quanto meno, normalmente no.

“E dei vampiri?”

Rimasi a guardare la domanda che risaltava sullo schermo, tentando di capire dove volesse arrivare. Alla fine negai anche questa opzione. Non potevo aver paura dei vampiri, li avevo sempre adorati, persino amati. Avevo tifato per loro nei film quando, alla fine, l’eroe di turno riusciva sempre a sterminarli. Come potevo provare timore per un qualcosa che aveva il potere di suscitare in me emozioni così forti?

“Siete sicura, mia dolce anima gentile, di non temere l’oscurità delle ombre e ciò che vi è celato?” Che razza di domanda era? Certo che ne ero sicura! Tuttavia iniziai ad innervosirmi, a chiedermi seriamente la motivazione di tutte quelle domande all’apparenza prive di senso.

“Mia signora, vi ho forse basito?” Certo che sì, ma non lo avrei ammesso, quanto meno non a lui. Inspirai forte per farmi coraggio e finalmente risposi: “Non ho paura dei vampiri. Nemmeno delle ombre!” E a voce alta aggiunsi un insulto, che serviva più che altro ad esorcizzare l’inquietudine che improvvisamente aveva iniziato a serpeggiarmi lungo la schiena.

“Tuttavia…”  Tuttavia cosa? Perché non terminava la frase? Lo scrissi utilizzando un linguaggio più appropriato, mantenendo uno stile simile al suo. “Siate meno criptico, in modo che io possa comprendere e possa darvi una risposta adeguata.” Per un momento parve non accadere nulla, abituata ormai com’ero a vederlo rispondere subito, quella pausa mi piacque poco.

“Tuttavia… il vostro abbigliamento discinto, scatena fantasie torbide.”

Inutile descrivere il gelo che sgretolò le mie ossa. Inutile tentare di spiegare lo scatto che compii voltandomi per vedere chi o che cosa avessi alle spalle. Ed ancora più inutile rivelare ciò che vi trovai.

© 2015 di Irma Panova Maino

Il nulla

Nasceva dal buio marasma del nulla. Un niente infinito che non sarebbe mai esistito se non vi fosse stato quel pensiero costante che, ogni notte, andava prendendo consistenza all’interno dei sogni.

Un sottile filamento che, attorcigliandosi su sé stesso, filo dopo filo, diventava ogni giorno più spesso e consistente. Una sorta di fune onirica che legava i pensieri a quell’unico nucleo, nutrendolo con la stessa sostanza incorporea di cui erano fatti i sogni. Un concetto che, da misero barlume iniziale, stava diventando sempre più solido e tangibile a causa delle frustrazioni e delle privazioni che venivano rinfocolate a ogni sogno infranto.

Il tutto era partito da un desiderio, da una necessità irrefrenabile che colmava l’inconscio d’insoddisfazioni, restando comunque ben celata nell’ancora avverso mondo reale. Un bisogno che veniva costantemente negato, dal momento che sarebbe stato inopportuno e controproducente, ma che non avrebbe potuto restare ignorato ancora per molto, non con quel legame che s’inspessiva, strattonando la coscienza ogni qual volta una frase, un gesto, una ricorrenza venivano dimenticati o elusi.

Persino le singole parole iniziarono ad alimentare quel “niente”, ogni più piccola sfumatura venne vagliata, soppesata e alla fine data in pasto alla sempre più famelica esigenza che il “nulla” aveva di palesarsi. Alla fine, anche i silenzi divennero un nutrimento sufficiente. Silenzi pesanti e solidi come macigni, talmente tanto corporei da affaticare il respiro.

Il “niente” valicò i confini del mondo onirico risvegliando istinti assopiti da tempo, stirò le rattrappite membra verso quella presa di coscienza luminosa che gli offriva nuovo sostentamento e mosse i primi passi verso l’orgoglio affranto.

Ed ecco che, ciò che si era a lungo celato nei meandri inconsistenti delle fasi REM, prese il sopravvento scuotendo la mente con vigore, fino a che i frutti non cominciarono a piombare verso il terreno con tonfi destinati a riverberare lungo tutto l’essere, espandendosi oltre i confini materiali dell’IO.

Il refolo d’aria, che a lungo aveva cullato la coscienza nelle notti caliginose e insonni, divenne prima vento e poi tempesta, arrivando a spazzare via ogni convinzione e ogni convenzione fino a quel momento riconosciuta. Il mondo onirico era diventato un luogo troppo ristretto per quella necessità impellente, una prigione soffocante che non poteva più contenere quel bisogno di libertà che la vita stessa imponeva, rifiutando con orrore l’inedia e la rassegnazione.

Il “nulla” divenne finalmente ciò che era destinato a essere fin dal principio, assunse la proprio identità con orgoglio e impose al mondo reale la propria ingombrante presenza, radendo al suolo le barricate poste dalle consuetudini radicate di un’esistenza spesa nel torpore e costruite da chi non poteva reggere al cambiamento.

E quando i testimoni, attoniti, gli chiesero il suo nome, cercando di ritrovare un equilibrio in quell’anarchia improvvisa, il nulla rispose con un sussurro gelido:

“Chiamami… Consapevolezza”.

© 2015 di Irma Panova Maino

Il matrimonio

In che modo comprendi che è giunto il momento e che è lui l’uomo della tua vita?
Quando, guardandolo negli occhi, ti rendi realmente conto che desideri passare il resto della tua esistenza con lui?

Forse quando te lo chiede.
Forse quando s’inginocchia platealmente davanti a te con un bel mazzo di fiori in mano, dietro il quale il suo volto imbarazzato sparisce e ti chiede con voce tremante: “Vuoi sposarmi?”

Francamente, fino a quel momento, fino a quando non gli ho visto posare quel ginocchio per terra, non mi era passato nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di sposarlo e tanto meno di passare il resto della mia esistenza con lui. Tuttavia, proprio in quell’attimo in cui si schiariva la voce e dava fiato alle trombe, mi sono resa conto che non era così assurdo prendere seriamente in considerazione la proposta. In pochi secondi mi sono passati davanti agli occhi tutti i trentadue anni della mia vita, tutti gli uomini che ne avevano fatto parte, tutte le sconfitte e le vittorie e mi sono detta, perché no?

Credo che in effetti quel “perché no?” non fosse esattamente la motivazione migliore per convolare a giuste nozze, ma tant’è che dissi di sì.
Peccato che me ne pentii praticamente nell’istante successivo, stretta nel suo abbraccio mortale, mentre farfugliava quanto fosse felice della mia risposta.

A questo punto c’è da chiedersi perché non cercai subito di rimediare alla situazione e non cercai di porre un freno al suo entusiasmo. Se lo avessi fatto subito, avrei potuto contenere i danni, avrei potuto quanto meno evitare tutto il caos che si scatenò subito dopo e la sbronza colossale che mi presi entro la fine della serata e che mi tormentò con i suoi postumi per ben due giorni, forse tre.

Peccato che mi nascosi proprio dietro a quei calici che vennero levati per festeggiare l’evento, sorridendo come un ebete da dietro il bordo fine di cristallo, osservando il mondo impazzito attraverso le bollicine scoppiettanti dello spumante. Nemmeno il mal di testa del giorno dopo riuscì a farmi rinsavire, nemmeno quello ebbe il potere di riportare un po’ di buon senso nei miei pensieri alcoolici. E tutto questo perché, per tutta la notte, ero stata ulteriormente convinta dal mio promesso sposo, il quale si era lanciato in tutta una serie di performance degne del più navigato attore porno.

A seguito di una sollecitazione del genere, come potevo rifiutare? Come potevo tornare sui miei passi e dirgli semplicemente: scusa, lasciamo perdere?

Non potevo.
Non quando mi guardava con quei suoi occhioni azzurri e languidi, con quelle sue labbra imbronciate e mi sussurrava parole tenere e gentili alle orecchie, facendomi sentire l’orco e la strega cattiva in un miscuglio degno di Barbablù. Come potevo stroncare quella felicità che gli vedevo lampeggiare negli occhi, ogni volta che incrociavo il suo sguardo?
Ma cielo! Che diavolo stavo combinato?!

Forse non sarà stato il migliore degli uomini, ma era pur sempre una brava persona, un essere delicato e comprensivo, un uomo che riusciva comunque a infondermi una serie di sentimenti positivi. E nemmeno quelli erano una motivazione sufficiente per sposarsi.

Avevo sempre pensato che quando fosse giunto il fatidico momento della proposta, mi sarei sciolta nel romanticismo, mi sarei sentita annientata da un’esplosione emotiva stratosferica, mi sarei dissolta in lacrime e avrei finito per tremare come una foglia… non che sarei stata sommersa da ondate di panico.

E ancora una volta c’è da chiedersi perché non fermai quel circo che si scatenò intorno a me, trascinando nel vortice degli eventi sia gli amici che i parenti di entrambe le parti.

Perché calcolai, erroneamente, di poterlo sopportare. Di poter far fronte ai doveri e di potermi godere i diritti. A trentadue anni era anche ora che mi sposassi, che uscissi dalla lista delle zitelle, pardon, oggi come oggi si chiamano single per scelta, anche se per quella degli altri, e mi lanciassi in quell’avventura coniugale a cui, bene o male, ogni donna aveva diritto di approdare, superata la trentina.

A trentadue anni, con qualche rapporto naufragato alle spalle una serie di episodi più o meno tragici nella mia vita, probabilmente avevo tutti i diritti di meritarmi una stabilità e una sicurezza derivanti proprio da un matrimonio. In fin dei conti, se proprio fosse andata male, sarei stata una divorziata e non più una zitella.

Certo che pensare ai preparativi per le nozze con in testa l’idea che, semmai dopo, avrei sempre potuto fregiarmi del titolo di divorziata e non più di zitella, non era proprio il massimo. E questo avrebbe dovuto dare un’ulteriore misura di quanto fosse profondamente sbagliato il passo che mi accingevo a compiere. Perché non me ne resi conto?

Penso che a volte nella vita si opti per il male minore, per quello che pensiamo possa essere la soluzione ideale a tutti i nostri mali, dando una svolta definitiva a un percorso già fallimentare.

Forse se ci legassero a una sedia e ci ponessero davanti a uno specchio, magari la nostra stessa immagine potrebbe in qualche modo farci rinsavire, magari sputandoci in un occhio. Peccato che difficilmente venga fatto uso di specchi in questi casi e non per l’utilizzo per cui andrebbero usati.

Quindi, mi ritrovavo con un uomo in ginocchio, sprizzante gioia da tutti i pori, il quale si stava già lanciando nell’organizzazione dei preparativi mentre io restavo lì, attonita, a osservarlo in silenzio, con la mente che rincorreva pensieri confusi che sfuggivano continuamente a qualsiasi logica.

Avevo appena acconsentito al matrimonio, avevo appena posto una seria ipoteca sul mio futuro e avevo appena accettato di passare il resto della mia vita svegliandomi ogni maledetta mattina di fianco a lui.

Il sonoro e rimbombante clangore del portone della mia coscienza si richiuse con un tonfo assordante, dandomi la netta impressione di essere appena stata sbattuta fuori di casa. Di essere stata abbandonata nel nulla delle mie scelte sbagliate, con un enorme indice puntato verso l’infinito, sul quale vi erano scritte a lettere cubitali le parole: adesso arrangiati!
Quando non si dà retta al buon senso, non resta altro da fare che arrangiarsi.

D’altra parte, perché non avrei dovuto prendere in considerazione il mio futuro sposo? Era un bell’uomo, alto un metro e ottanta, bel fisico longilineo, capelli biondi, occhi azzurri, un tipo assomigliante alla John Voight, sorridente, spensierato, pronto a tutto per avermi… quindi dov’era il problema?

Purtroppo lo scoprii dopo dov’era il problema e capii anche che cosa il mio stramaledetto subconscio aveva tentato di comunicarmi prima del fatidico “sì”. Ma accidenti, perché il subconscio parla in aramaico antico quando tenta di comunicarti qualcosa di importante? Perché non si limita semplicemente a esporre i fatti in modo chiaro e preciso?
Perché forse ci sentiremmo ancora più degli idioti.

Dopo sei mesi restituii il mio sposo alla sua famiglia, depositandolo sul zerbino d’ingresso insieme alle sue valigie e a tutte le sue cose, cercando di non sottolineare l’ovvietà del fatto, ovvero che mi avevano rifilato un “prodotto” che non era adatto a me.

A lui piacevano gli uomini. Questo era il problema. E rendersene conto, trovandolo a letto con il testimone di nozze, non era stata esattamente una bella sorpresa. Non mi fece incazzare il fatto che fosse gay, mi fece diventare furibonda il fatto di avermelo taciuto.

Accidenti a lui… se me lo avesse detto chiaro e tondo fin dal primo momento, forse lo avrei sposato ugualmente, ma la menzogna non riuscii proprio a tollerarla. Tuttavia, ancora adesso mi chiedo come fu possibile per lui avere rapporti sessuali con me, viste le sue preferenze… non lo saprò mai e forse nemmeno lui.

© 2015 di Irma Panova Maino

Ero io il cacciatore

Mio era l’onere. Mie le sensazioni. La scelta era ricaduta istintiva, complice, naturale…

Sentivo la preda. Era confusa, incerta, lacera… Ed era l’odore del sangue che mi aveva condotta a lei. Quel timore manifesto, la frenesia, la ferita ancora aperta…

Perfetta. Era perfetta per la mia fame. Perfetta per il desiderio di carne e sangue, di possesso e conquista. Per la mia caccia.
Come una belva, trattenuta troppo a lungo, mi sono avventata, incauta, bramosa, cogliendo quell’attimo in cui la distrazione è divenuta fatale. Quel sentore pungente e accattivante del suo strazio ha scatenato i miei sensi, riducendoli in cenere, annientando ogni precauzione, ogni istinto venatorio, ogni regola così faticosamente segnata sulla propria pelle e sulle proprie ferite.

Fame. Nient’altro che cieca e sorda fame incontenibile, richiamata da quei fremiti guizzanti sotto una pelle pronta per essere lacerata, squarciata, dilaniata…

Zanne gocciolanti saliva e artigli protesi fino allo spasimo, occhi ardenti e famelici, concentrati per cogliere ogni sfumatura, ogni possibile tentativo di fuga… ero pronta.
Pronta per la mia preda.

E lei mi ha colto. Attanagliato e avvinghiato nel suo strazio, portandomi a fondo con lei, annegandomi in quel dolore infinito che pareva non avere confini né limiti.

Quanto potevo ancora ferire un animo così devastato? E quanta sofferenza potevo ancora infliggere, restando insensibile?

Porto la catena della mia scelta. Porto il collare che mi ha reso consapevole e volontariamente parte di una follia che non rinnego.

E questo peso, dolce per la verità, placa la mia fame, sazia il mio bisogno, lasciandomi nell’attesa di vedere comparire di nuovo la mia preda.

© 2015 di Irma Panova Maino

Dietro alle palpebre chiuse

Dedicato a Lu Paer e al suo costante impegno

Sono con te, fra le spighe dorate di quei campi soleggiati in cui anche l’aria ha l’odore del sole. Corriamo insieme, fianco a fianco e io ti sento ridere, spensierato.

Ed è felicità, quella sensazione che mi giunge sulla pelle, che mi fa dilatare le narici per cogliere ogni possibile sentore, ogni sfumatura di quella natura che generosamente spande il proprio dono odoroso nell’etere. L’odore fruttato dei meli e dei noccioli, quello fresco dell’erba, le fragranze colme di miele delle fresie e quello speziato dei gladioli… e, infine, quello tipico della lavanda, che mi ricorda tanto casa.

La nostra tana, il nostro angolo vissuto sul divano alla sera, guardando insulsi programmi in quella scatola che tu chiami televisione e di cui a me non importa niente. Ciò che realmente conta è stare con te. Accoccolato vicino al tuo corpo caldo e rassicurante, protetto dalla tua ombra. Ciò che conta è il suono della tua voce, la pressione delle tue mani, la dolcezza del tuo alito. Ciò che conta è sentire le tue sensazioni, capire che mi vuoi vicino, che ti rendo quella gioia che mi doni tutti i giorni. Ciò che conta è aprire gli occhi e saperti in giro per casa, alzarmi e trovarti in cucina mentre prepari la colazione per entrambi e ritrovarti ogni sera quando, tornando a casa, mi chiami da dietro la porta per essere certo che sono pronto ad accoglierti…

Non desidero null’altro che questo. Non voglio quell’improvvisa presenza fra noi, invadente e avversa.

Adesso ho paura, ho freddo, mi sento perso e inutile. Solo, come se non potessi più fare conto su di te, come se non fossero mai esisti i giorni passati insieme.

Sai cosa vorrei ora? Vorrei poter continuare a vivere e morire con te accanto, con il sentore della tua presenza nell’aria che mi circonda. Vorrei quel divano logoro e quelle quattro mura rassicuranti in cui è esisto il mio tempo. Vorrei una carezza ancora, anche solo un tocco leggero per confortarmi.

Ed è questo il sogno che continuo a scorgere in questa notte d’estate, dietro alle palpebre chiuse mentre, con il muso fra le zampe, mi chiedo perché mi hai legato qui, in questo posto estraneo colmo di quel rumore che ti ha portato via.

© 2015 di Irma Panova Maino

Cristalli di ghiaccio

“Che dice Capitano, un altro poveraccio morto dal freddo?” L’uomo chiamato in causa si strinse nel cappotto provando un brivido gelido e non tanto per la temperatura polare, quanto per l’ennesimo corpo rinvenuto durante quella settimana, inspiegabilmente deceduto a causa di un unico colpo inferto al petto. Un buco scavato fin dentro nel ventricolo, il quale aveva paralizzato il cuore, interrompendo qualsiasi funzione vitale e dai primi rilevamenti, le uniche tracce utili erano state dei cristalli ancora ghiacciati, rinvenuti all’interno di quel tunnel letale, come se l’arma fosse stata un punteruolo gelato oppure un pezzo di stalattite strappata da qualche cornicione.

Il Capitano alzò lo sguardo verso il proprio Maresciallo, scuotendo la testa sconsolato. “Queste morti mi stanno facendo perdere il sonno. Nessun testimone, nessuna traccia utile, niente di niente e non so più a quale santo votarmi.”
L’altro non rispose, non aveva nulla da aggiungere e in quella fredda mattina di febbraio, risparmiare sul fiato aiutava a trattenere il calore corporeo. Tuttavia un giornalista zelante non si lasciò sfuggire l’occasione di sorprendere il titolare del caso da solo, senza avere l’immancabile codazzo di cronisti, fotografi, reporter e cameramen al seguito.
“Capitano? Capitano una domanda!” L’altro sbuffò producendo una nuvola di condensa, che parve cristallizzarsi prima ancora di riuscire a disperdersi nell’aria.
“Merini, fa un freddo cane questa mattina, non possiamo rimandare?” Il giornalista sorrise allungando il proprio palmare sotto al naso dell’ufficiale.
“Capitano e quando mi ricapita più di beccarla da solo?”

Il Maresciallo, felice di non essere lui quello sottoposto alle domande della stampa, sgattaiolò verso la macchina di servizio, sfregandosi le mani e battendo i piedi prima di entravi. Al Capitano non rimase altro da fare che sorridere di buon grado, in attesa che il giornalista facesse il suo lavoro.
“Avanti Merini, mi faccia le sue domande e cerchi di sbrigarsi.”
“Ecco la prima Capitano, questo è il quarto morto in una settimana, si tratta forse di una vittima di un omicida seriale?”
L’ufficiale squadrò l’uomo con un certo astio, non sapendo se mandarlo subito a quel paese o trattenersi il tempo necessario per cercare di confutare certe ipotesi: scatenare il panico non era nell’interesse della comunità.
“Non userei certi termini, Merini. Parlare di serial killer è eccessivo.”
“Tuttavia non può negare che quattro cadaveri siano veramente tanti. Due uomini, una donna, un ragazzo… tutte persone diverse fra di loro, senza nulla che parrebbe accomunarle… a me sembra che…” L’ufficiale lo interruppe, prima che le divagazioni prendessero una piega imbarazzante.
“Senta Merini, se lei ne sa più di me, allora sono io che dovrei fare le domande a lei e non viceversa. Nulla lascia supporre che si tratti di un maniaco o roba del genere, quindi non scriva fesserie e non faccia congetture controproducenti!” Il giornalista non perse il proprio sorriso, ma negli occhi ogni traccia di divertimento si spense.
“Capitano, ci sono quattro morti che chiedono giustizia e la cittadinanza ha il diritto di sapere se può aggirarsi liberamente dopo le cinque del pomeriggio per le strade!”
“E chi glielo impedisce?” borbottò il graduato arrivando in prossimità della macchina, ma prima di riuscire a salire a bordo, il giornalista gli pose ancora una domanda: “Sono stati tutti uccisi con qualcosa di affilato, no? E lei questo come lo definisce?”

Per un momento i due uomini si guardarono negli occhi, ognuno cercando di decifrare quanto ne sapesse l’altro, alla fine l’ufficiale si produsse in un sorriso tirato.
“Maresciallo, porti il signor Merini in caserma, direi che è una persona informata sui fatti e forse è in grado di far luce su quello che per noi è un caso inspiegabile.”
“Ma lei non può…” protestò subito il giornalista.
“Non posso fare cosa? Interrogarla? Vogliamo vedere?”
“Senta Capitano, mettiamoci d’accordo, io le dirò quello che so e lei mi dirà quello che può.” L’ufficiale si lasciò sfuggire una risata alquanto amara.
“Quello che io posso dire? Andiamo Merini, ha voglia di scherzare! Le sue fonti sono migliori delle mie, a quanto pare. Io ho quattro morti che aspettano e nessun colpevole da portare ai miei superiori. Ho un’arma del delitto che pare inesistente e nessuna spiegazione valida.”
“Il ghiaccio Capitano, il ghiaccio. Sono stati uccisi con qualcosa di gelato, anche l’ultimo, non è vero?” L’ufficiale si appoggiò stancamente alla macchina, facendo cenno al Maresciallo di rientrare nel veicolo, come se la conversazione in corso dovesse rimanere privata. Guardò il palmare in mano al giornalista e questi, intuendo le intenzioni dell’altro, spense l’apparecchio e lo ripose in tasca.

“Merini cosa sa veramente di questo caso?” L’altro valutò per un istante che cosa rispondere, poi con un sospiro fece un cenno con la testa verso il punto in cui la scientifica stava ancora facendo i rilevamenti intorno al cadavere.
“Anche quello è morto pugnalato al cuore, no?”
“Sì Merini, anche quello. Allora cosa sa?”
Il giornalista tornò a fissare lo sguardo in quello del carabiniere e finalmente parvero intendersi.
“Conosco un barbone, che a sua volta conosce un altro barbone, che dice di aver visto qualcosa la sera dell’uccisione del ragazzo, quello uscito dall’università.”
“La seconda vittima?”
“Sì, quella. L’amico del mio amico dice di aver visto una strana cosa, una forma tutta bianca, aggirarsi per quel tratto di strada, ma nevicava troppo forte per capire esattamente che cosa fosse.” L’ufficiale parve trasalire.
“Come sarebbe a dire una forma bianca? Una forma di cosa? Di formaggio?” la tensione nella voce era palpabile, così come l’improvviso nervosismo del Capitano. Merini istintivamente fece un passo indietro, alzando le mani come per volersi difendere da un’eventuale accusa.
“Ehi, non sono io che sto dicendo questo! Nemmeno io ho capito che cosa voglia dire questa storia della forma bianca… oltretutto la mia fonte nell’Istituto di Medicina Legale mi ha confermato che le uniche tracce trovate, nell’unica ferita rilevata sui cadaveri, presentava residui di acqua piovana e una certa percentuale del pulviscolo presente nell’atmosfera. E questo fa pensare ad un’arma fatta con del ghiaccio. Lo so che sembra assurdo, ma sono giunti tutti alla stessa conclusione.”

Il Capitano sbuffò risentito.
“A qualcuno di quelli del laboratorio metto le manette ed un bavaglio! Va bene… e quindi? Questa forma bianca che forma ha?”
Il giornalista sventolò le mani come a voler cercare le parole adatte, ma non trovandole, alla fine sospirò di nuovo scuotendo la testa.
“Non lo so… non ho ben capito quello che ha tentato di dirmi il mio amico e credo che nemmeno lui abbia capito bene che cosa intendesse dire il barbone di sua conoscenza, ma sembra quasi che stiamo parlando del classico fantasma con un lenzuolo.”
Il Capitano sgranò leggermente gli occhi ed un lieve sorriso ironico si dipinse sulle sue labbra. “Un fantasma con lenzuolo? Come quello dei castelli scozzesi con tanto di catene? Ma andiamo Merini, non crederà veramente ad una panzana del genere?”
“Non so cosa credere Capitano, ma tutto questo è strano, non trova? Sono arrivato presto sul posto, questa mattina, ho visto anch’io che non c’erano impronte intorno al cadavere…”
“Non significa nulla, ha nevicato parecchio nelle ultime ore, qualsiasi traccia potrebbe essere stata seppellita sotto altri cumuli di neve!”
Tuttavia, proprio mentre lo diceva, il Capitano parve dubitare delle proprie parole e istintivamente lo sguardo corse verso il cadavere che veniva issato in quel momento sulla barella, per essere portato via da un’ambulanza in attesa.

Per quanto assurdo potesse sembrare, anche lui aveva avuto l’impressione che non vi fossero impronte intorno al cadavere, anche se queste avrebbero potuto essere nascoste sotto altri strati di neve fresca. E se mancavano delle impronte intorno al morto, allora cosa lo aveva ucciso? Un fantasma con un lenzuolo bianco, armato di un punteruolo fatto con il ghiaccio?
Scosse la testa senza nemmeno rendersi conto del gesto. Più ci pensava e più gli sembrava verosimile come ipotesi, ma era certo che nessuno avrebbe creduto ad una teoria del genere.

*

Fa freddo in questo immenso mondo candido e ghiacciato. Fa freddo e sento le estremità rigide, totalmente inutili. Non so nemmeno io perché mi trovo in questo stato, perché sono stato costretto in questa immobilità, rattrappito dentro a questo involucro.
Non ricordo nulla di ciò che è stato, nulla di quello che ho vissuto, provato, assaporato… sento la mia anima congelata alla stessa stregua delle mani o dei piedi. Vorrei poter dire che la mia vita sia servita a qualcosa, ma non ricordo nulla. Loro sono vivi, sono tutti vivi e questa certezza mi divora, mi strazia, rende la mia consapevolezza del mondo un luogo orribile in cui condividere il mio orrore.

Sento l’odio pervadere le mie vene inutili, riempirle con dell’acido astioso, dando vitalità a un corpo che non esiste. Loro mi guardano, mi deridono, mi girano intorno con le loro faccette insignificanti. Mi toccano, palpeggiano senza alcun riguardo per i miei sensi, i miei desideri. Sono invadenti, non si curano del male che potrebbero farmi, mi rimodellano pensando solo al proprio divertimento, alla gioia dei loro figli, piccoli vandali in erba. L’odio è il carburante che porta energia nelle mie forme, l’odio corroborante che fa smuovere il mio piccolo universo gelato. Vedo le altre vite scorrermi intorno e non posso interagire come vorrei, non posso comunicare… posso solo uccidere…

*

Il bambino guardò fuori dalla finestra. La sua camera si affacciava proprio sul giardino interno, dandogli la gioia di potersi godere la neve attraverso i vetri. La neve e quelle costruzioni fatte con mamma e papà, l’igloo, il pupazzo…
Per un momento rimase immobile a guardare quello spazio immacolato, delimitato dalla recinzione che circondava la proprietà, poi si agitò così all’improvviso sulla sedia da doversi afferrare al bordo della scrivania per non cadere.
“Mamma! Mamma, vieni a vedere! Il pupazzo di neve è di nuovo sparito!”

© 2015 di Irma Panova Maino

Vuoti inutili

Fantasmi di ere passate
come acidi scivolano sull’anima
corrodendo ricordi

E attraverso la soglia
si riversa
in un modo o nell’altro
l’assenza del vivere
dell’essere
del credere

Restano i vuoti
da entrambe le parti
come abissi
in cui l’affetto si perde.

E restano solo domande.

© 2015 di Irma Panova Maino

Sola

Sola
nel silenzio della mia anima sconfitta
nel candore della distesa artica
in cui il mio cuore alberga

Sola
nel caotico rumoreggiare
di un mondo che non ascolta
e arranca stanco verso mete lontane

Sola
rapita da fantasmi costruiti su misura
pronti a rodere gli armadi
come i tarli della mente

Sola
negli anni che passano
portandosi via speranze e sogni
racchiusi nel click di un ultimo invio.

© 2015 di Irma Panova Maino